L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

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LA STORIA DEL VINO

2022-01-25 14:24:44

STORIA O LEGGENDA LE VICENDE DEL TIMOR DI SASSO, TIMORASSO, IL MIGLIOR VITIGNO BIANCO PIEMONTESE, CHIAMATO DERTHONA.

Un’antica storia di violenza e bontà

La leggenda narra che tale Gioacchino di Tonio, detto “il burbero”, allevatore nomade di capre vissuto verso la fine del 1200 nei monti al confine tra la repubblica di Genova ed il granducato di Milano, fosse talmente scontroso, rozzo e selvatico da non permettere a nessuno di avvicinarsi alla povera capanna che si costruiva in luoghi sempre diversi durante i suoi spostamenti tra le aspre vette. Quei pochi viandanti che, non conoscendolo, si avvicinavano alla sua misera dimora per chiedere un pezzo di pane, un poco di minestra calda od una fetta di formaggio, venivano severamente raggiunti da calci, pugni e bastonate che lo scorbutico e primitivo Gioacchino scaricava su di loro con tutta la sua poderosa forza. Molti malcapitati non se la cavarono facilmente e tornarono ai villaggi più vicini malconci e con le ossa rotte. La fama funesta di quella specie di violento eremita crebbe col passare degli anni ed il capraio cominciò ad essere circondato da un alone di mistero e di terrore, che giunse fino alle città più vicine.

A causa di un inverno particolarmente lungo, rigido e severo, Gioacchino fu costretto a scendere lungo la valle che portava verso il fiume Scrivia ed i domini del vescovo di Terdona (l’odierna Tortona), vassallo del granduca di Milano. La sua presenza fu vista come un segno del diavolo e lo stesso territorio prese da allora il nome di Val del Burbero ed in tempi più recenti Val Burberia e poi Val Borbera.

Giunto ormai in prossimità dei colli che limitavano a sud est la ricca città, Gioacchino si aggirava tra i boschi e le rade vigne che coprivano quel dolce territorio, cercando il miglior luogo per erigere una modesta ed improvvisata capanna.

Destino volle che proprio nei pressi passasse la giovane Donna Elisia della Colomba, accompagnata dalla fedele ed anziana fantesca. Era Elisia donzella di bellezza abbagliante che attirò immediatamente lo sguardo dello sporco e solitario capraio.

Anni ed anni di vita eremitica, a contatto solo con le sue puzzolenti capre, risvegliarono in lui desideri e passioni mai completamente sopiti. Mai inoltre aveva visto nella sua misera vita un cotale splendore, mai pelle così bianca e vellutata, mai labbra così tenere e fiammeggianti. Il desiderio più violento lo accecò ed egli si lanciò verso la leggiadra donzella per dare sfogo alle sue animalesche brame. Inutilmente l’attempata fantesca si parò eroicamente davanti alla padrona, cercando di dirigere verso di sé gli appetiti di Gioacchino e sperando in cuor suo che questo avvenisse. Il capraio era rozzo, lacero, miserando, ma non stupido e la cacciò con un rapido gesto della mano. Mentre si stava per compiere il terribile misfatto e la candida ed immacolata ragazza stava per immolarsi sull’altare della brutalità e della vergogna, due occhi seguivano la scena.

Erano quelli di tal Claudiano di Mario “Ottomani”, nobile decaduto di una celebre famiglia di Terdona. Contrariamente a quanto poteva far pensare il nome, nessun legame vi era con lontane origini orientali, bensì “ottomani” si riferiva alla sua ben nota passione per le belle donne e per la vita sfrenata, che aveva portato l’illustre casato alle difficili condizioni odierne. Si racconta che Claudiano fosse sempre circondato da graziose e disponibile pulzelle e che le sue due mani sembrassero moltiplicarsi fino a diventare quattro paia pur di non trascurare nessuna delle prede così accondiscendenti. Esse erano insaziabili e parevano aumentare di numero in cerca di sensazioni lussuriose.  La capacità di seduttore superava di molto quella di proprietario terriero ed i suoi appezzamenti erano ormai incolti ed in preda alle erbacce. Quella mattina Claudiano aveva seguito di nascosto la splendida e devota pulzella nella sua passeggiata verso la chiesetta della Misericordia, dove il buon frate Aldimiro l’avrebbe confessata.

Le sue intenzioni non erano certo consone al vecchio rango di cavaliere, in quanto aspettava soltanto il momento propizio per assalire la pulzella e dare sfogo alle proprie voglie. Tuttavia Gioacchino lo aveva preceduto ed a tale visione la vecchia stirpe di Claudiano riaccese nell’uomo la cavalleria e l’onore di un tempo lontano. Dimenticò le brame nascoste e si lanciò in soccorso della singhiozzante Elisia. Ne nacque una lotta furibonda, in cui la dissolutezza di Claudiano stava per avere la peggio di fronte alla rabbia animalesca di Gioacchino. La povera donzella non sapeva a cosa pensare e per chi fare il tifo.

Il dramma avvenne però nei pressi della vigna di proprietà di un certo Ser Valterio dei Massi, nobiluomo di campagna. Era questo uomo di stazza poderosa e dai modi decisi e risoluti. Attirato dalle urla, dal pianto e dai ringhi disumani, accorse prontamente e vide la tragedia. Ormai Claudiano era allo stremo e la fanciulla urlava e singhiozzava disperatamente. Valterio sentì il proprio sangue ribollire ed incurante della nomea che circondava Gioacchino, si fece avanti scagliando verso il capraio una salva di pietre enormi, abbondanti in quella arcigna terra. Per la prima volta in vita sua l’eremita errante fu colto da paura e terrore. Ebbe un sussulto, forse una visione, e la sua violenza ingenua e primitiva si trasformò improvvisamente in un pianto dirotto. Si accasciò al suolo e chiese pietà a Valterio, Claudiano ed Elisia. Valterio, sebbene di indole irascibile, non era cattivo e si commosse di fronte a quella selvaggia creatura che implorava il perdono. Lo stesso fecero Claudiano, rialzatosi dolorante e sanguinante, e la rinfrancata Elisia. Gli andarono incontro e lo aiutarono a sollevarsi. In quel sito miracoloso fu eretta una cappella per ricordare la vittoria del bene sul male.


Da quel giorno Gioacchino divenne fedele servitore di Valterio e, vendute le capre, si dedicò ai lavori di vigna agli ordini del nuovo padrone. Claudiano ruppe con la vita dissoluta e volle seguire il signorotto nell’arte di fare il vino, rimettendo in ordine i suoi terreni incolti. Simile scelta fece Elisia, grata ad entrambi i valorosi cavalieri. Ella diventò così la prima donna nella storia a seguire le pratiche di vigna e fondò poco dopo l’ordine delle Madonne del Vino. Proprio a quel vino aspro e sincero che scaturiva dai languidi colli tortonesi, un bianco che nella durezza del carattere ricordava Valterio, nella sensualità Claudiano e nella leggiadria la luminosa Elisia, decisero di dare un nome che ricordasse il miracoloso accadimento. Dato che quel giorno la violenza della natura, ossia Gioacchino, aveva ceduto per timore dei massi scagliati da Valterio, allo splendido estratto d’uva fu assegnato l’appellativo di Timor del Sasso, da cui poi Timorsasso ed infine Timorasso.

Una storia di forza e di bontà, in perfetto accordo con le prerogative dell’ormai celebre vino piemontese. Ancora una volta un apparente mistero insolubile è stato risolto da un attento studio storico, basato su solide radici di cultura ed amicizia!

Dopo decenni di oblio, dagli anni Ottanta del Novecento, grazie alla tenacia di alcuni volonterosi ed intraprendenti vignaioli, il Timorasso, un vino prodotto nei colli tortonesi è protagonista di una grande riscoperta.

Il Timorasso è un vitigno rustico e vigoroso anticamente coltivato nell’Alessandrino ed in particolare dal Novese al Tortonese fino all’Oltrepò Pavese, sulle colline del Vogherese e in Val Borbera.

Segnalato nelle carte dei vini di alcuni dei migliori ristoranti italiani e stranieri, questo vino riscuote sempre più consensi e con Barbera e Cortese è il fiore all’occhiello dell’attuale vitivinicoltura tortonese.

In questa area è coltivato dal Medioevo, ed è citato nella prima enciclopedia agraria redatta nel XIV secolo dal bolognese Pier de Crescenzi. Tra i problemi del vitigno, che nei decenni passati hanno fatto sì che venisse in parte abbandonato, vi è la grande incostanza della sua produttività e le difficoltà di coltivazione e vinificazione.

Alla fine dell’ottocento era il vitigno maggiormente coltivato nel Tortonese. Ha poi conosciuto un lungo periodo di abbandono legato a livelli di produttività e resa inferiori rispetto ad altre uve, come ad esempio il Cortese. Attualmente, in Val Borbera è stato avviato un progetto per la rivalutazione del prodotto che inoltre viene anche vinificato nelle tre valli Tortonesi: val Curone, val Grue e valle Ossona.

A partire dagli anni Ottanta però, grazie all’iniziativa di Walter Massa, è cominciato un movimento di recupero e sperimentazione, che ha portato non solo alla realizzazione di vini bianchi unici nel panorama italiano per corpo e longevità, ma anche ad una rivitalizzazione del territorio Tortonese, dandogli visibilità e fiducia nelle proprie potenzialità. A dieci anni dalla stesura del disciplinare di produzione, con soli 50 ettari vitati, e 400.000 bottiglie annue, il Timorasso inizia a essere conosciuto e apprezzato in Italia e all’estero come vino d’eccellenza.

Il vino che si ottiene è un bianco corposo e di buona struttura, dai profumi fruttati e floreali molto delicati, dal colore giallo paglierino che con l’evoluzione vira verso il dorato. È adatto ad un breve invecchiamento. Nella sua variante “giovane” costituisce un ottimo aperitivo e si abbina perfettamente agli antipasti a base di verdure o a salumi poco stagionati. Nella variante stagionata si accompagna perfettamente ai primi piatti a base di tartufo, ai formaggi freschi, alle carni bianche ed ai piatti di pesce. E recentemente è stato sviluppato in versione spumante, ottimo da abbinare a piatti di pesce.

La produzione, molto limitata, ne fa un vino pregiato per veri intenditori appassionati.

antonio.dacomo 29/6/21

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