L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

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LA STORIA DEL VINO

2021-04-07 09:10:31

GLI ETRUSCHI, PRECURSORI DELL'ENOLOGIA IN EUROPA?

Già mille anni prima di Cristo furono gli Etruschi i primi a coltivare la vite e a fare il vino nell’Italia Centrale. Ebbene gli Etruschi svolsero un ruolo chiave nella diffusione della cultura del vino nel mondo occidentale. Proprio gli Etruschi sono stati responsabili dell’introduzione della viticoltura nell’attuale Francia. Il popolo etrusco fu molto interessato all’enologia e pare che producesse vino in quantità (da buoni Toscani!)
Dall’Armenia sembra che la vite si sia diffusa dapprima in Tracia e poi successivamente, grazie ai navigatori Fenici, alla Grecia e poi all’Italia, inizialmente nelle colonie della Magna Grecia e poi nelle regioni centro-settentrionali, ad opera degli Etruschi.
A riprova di ciò vi sono ritrovamenti di semi di vite in alcune tombe Etrusche nella zona del Chianti, furono fra i primi a sviluppare la viticoltura in Italia e la diffusero in buona parte della penisola, dal Nord (Emilia Romagna) fino al Sud (Campania), Roma compresa. Grandi navigatori e mercanti, vennero a contatto con le culture del Mediterraneo orientale ed introdussero in Occidente gli aspetti culturali del vino, come il simbolismo religioso e il consumo rituale nei simposi, oltre che le varietà di vite orientali. Infine, gli Etruschi diffusero il vino e la sua cultura attraverso il commercio anche presso popoli dell’Europa Occidentale che ancora non conoscevano questa bevanda, come i Celti, i Germani e gli Iberici.
Plinio il vecchio racconta che a Populonia (vicino a Piombino) era conservata una statua di Giove intagliata in legno di vite. Le prime prove dirette della produzione di vino in Italia risalgono alla metà del VII secolo a.C., sotto forma di ceramiche per il vino di produzione locale, dunque non importate, presenti in grande quantità nelle tombe dell’epoca. Gli Etruschi erano originari della Toscana ed dell’Alto Lazio (Etruria Storica) e solo in seguito allargarono i loro confini, arrivando a sud fino alla Campania e a nord all’Emilia-Romagna. La Campania segnava di fatto il confine fra la cultura Etrusca e quella Greca, che coincide grossomodo con il corso del fiume Sele. Gli Etruschi contribuirono alla diffusione del vino anche oltralpe, con imbarcazioni cariche di anfore che solcavano il Tirreno dalla Sicilia alla Gallia meridionale. A Cap d’Antibes è stato trovato il relitto di una nave etrusca contenente circa 170 anfore vinarie.
Sembra che gli Etruschi coltivassero la vite fin dall’età del Bronzo, a partire dal XII sec. a.C. Le prime viti ad essere coltivate erano varietà selvatiche, che gli Etruschi vedevano nell’ambiente naturale e di cui avevano già imparato a raccogliere i frutti. Solo in un secondo momento, il contatto con i popoli del Mediterraneo orientale, soprattutto i Greci, permise loro di importare nuovi attrezzi e modalità di lavoro, ma anche nuovi vitigni di origine orientale, che vennero coltivati tal quali ma anche incrociati con le varietà locali. I sistemi di allevamento degli Etruschi derivavano da come le viti crescono spontaneamente nei boschi. In natura la vite è un arbusto rampicante, che nei boschi, il suo ambiente naturale, tende a utilizzare un albero portante (tutore) per raggiungere il più possibile la luce, non comportandosi però da parassita, quindi senza interferire con l’albero a cui si aggrappa. Questo tipo di allevamento è detto a vite maritata, con la vite quasi “sposata” all’albero a cui si appoggia. Le viti venivano fatte crescere su pioppi, aceri, olmi, ulivi ed alberi da frutto. La vite maritata è arrivata fino ai nostri giorni nei territori della civiltà Etrusca, soprattutto nella zona di Caserta. La potatura praticata dagli Etruschi era molto lunga, pertanto la vite tendeva a crescere molto, con tralci anche lunghissimi. Per la vendemmia si usavano le nude mani o falcetti, su scale appoggiate agli alberi, oppure con strumenti dal lungo. All’epoca degli Etruschi la viticoltura non era un’attività specializzata e quindi le vigne erano promiscue con altre colture, come cereali, ulivi, alberi da frutta ed altro. Furono gli Etruschi a trasmettere la cultura della vite e del vino ai Romani, grazie al secondo re di Roma, Numa Pompilio, di origine Etrusca.
Non sono rimaste testimonianze scritte sui sistemi di vinificazione degli Etruschi, ma si può comunque fare riferimento alle più antiche testimonianze Romane, dal momento che furono gli Etruschi ad insegnare ai Romani come produrre il vino. La parola latina vinum, deriva essa stessa dall’Etrusco e dal latino alle moderne lingue europee (vino, vin, wine, wein, ecc.). Fin dall’inizio Etruschi pigiavano l’uva in pigiatoi detti palmenti, scavati in affioramenti rocciosi naturali situati in prossimità dei luoghi dove si trovavano le viti selvatiche o realizzati nelle vigne all’epoca delle prime coltivazioni. I palmenti venivano coperti con tettoie per ombreggiarli e proteggerli dalla pioggia. I primi palmenti in pietra risalgono all’età del Bronzo, ma la loro datazione non è semplice, essendo stati usati per secoli, fino all’epoca medioevale ed in alcuni casi fino al Novecento. Essi consistevano in due cavità poste ad altezze diverse e comunicanti attraverso un canale di scolo. L’uva era pigiata con le mani o i piedi nella vasca superiore, con il canale di scolo chiuso con argilla. Dopo la decantazione si apriva il foro e si lasciava passare il liquido nella vasca inferiore, dove si completava la vinificazione. Le vinacce, nella vasca superiore, venivano pressate con pietre o pezzi di legno per recuperare il mosto residuo. In antichi vasi Greci si vede l’impiego di rudimentali torchi per il vino, costituiti da un tronco appesantito con pietre. Si può presumere che anche gli Etruschi li utilizzassero, anche se la prima documentazione di torchi da vino di questa tipologia in Italia si deve a Catone, nel II sec. a.C. Il primo mosto veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di resina o pece. Il vino veniva lasciato riposare e a primavera era decantato e versato in anfore per il trasporto. Molto probabilmente si usavano anche otri in pelle, di cui non ci sono rimasti reperti, ma che sono spesso raffigurati. Si ritiene che le rese in vino non dovessero essere superiori al 50%.
Quello che sappiamo sui vini dell’epoca degli Etruschi proviene dagli scritti di autori Romani. Marziale ed Orazio elogiano il vino del Massico (nell’area della Campana civilizzata dagli Etruschi. Columella (I sec. d.C.), nel “De re rustica” elenca varietà di vite dell’Etruria, come il Pompeiano o il Murgentino. Plinio il Vecchio cita a sua volta diversi vitigni delle zone di Pisa ed Arezzo ed i vini di Tarquinia sono descritti come eccellenti. Si sa di più su come gli Etruschi consumavano il vino.
Rituali legati al vino erano già presenti in Etruria fin dalla fine dell’età del Bronzo, ma fu in seguito al contatto con la cultura Greca che il vino entrò nelle celebrazioni religiose in particolare in quelle funebri. Anche la coltivazione della vite era così importante presso gli Etruschi che erano i sacerdoti custodi delle tecniche di coltivazione dei vigneti e delle invocazioni per preservarli dal maltempo. La potatura stessa aveva un alto contenuto simbolico, in quanto forma di controllo e regolazione della produzione delle viti, veniva percepita come segno di autorità. I Greci influenzarono anche la religione degli Etruschi. Infatti tra le divinità più importanti per la religione etrusca vi era Fufluns, molto simile al dio greco Dioniso, con cui venne poi identificato. Durante le cerimonie religiose in onore del dio, attraverso l’ebbrezza del vino gli iniziati provavano una sorta di evasione dalla realtà che poteva prefigurare un destino felice nell’aldilà. Fu a partire dal IV secolo a.C. che i culti dionisiaci ebbero la loro massima diffusione e iniziarono anche a diffondersi anche verso Roma.
                                                      fattoria etrusca di Chianciano
In seguito il vino divenne protagonista anche dei riti pagani, come i banchetti ed i simposi, in cui si beveva vino assistendo a spettacoli di musica e danza. I più poveri probabilmente consumavano un vinello leggero, derivato dal ripasso delle vinacce con acqua, pratica frequente anche in epoca Romana. Tipicamente Etrusca è la presenza delle donne ai banchetti, a volte rappresentate adagiate accanto all’uomo o sedute vicino, mentre nella Grecia antica il simposio era solo maschile o al più aperto alle etere (prostitute di alto livello). Gli autori Romani criticarono il grande lusso dei banchetti Etruschi, ed alcuni di essi si spinsero a definire gli Etruschi “schiavi del ventre”. Popolare l’immagine dell’Etrusco obeso, diffusa da Catullo. Si mangiava con le mani e nella sala scorrazzavano animali domestici (cani, gatti, polli, anatre…), che mangiavano i resti di cibo che cadevano (o erano buttati) a terra. Vi era sempre la musica, soprattutto dei flauti e ci potevano essere anche spettacoli di danza e giocolieri. Il vino veniva diluito con acqua, fredda o calda a seconda delle stagioni, ma anche aromatizzato ed addolcito, per coprire i difetti dovuti alle limitate tecniche produttive e di conservazione, con miele, erbe, fiori, spezie, resine. I banchetti Etruschi erano straordinariamente simili a quelli dei Greci, con il vino bevuto distesi sulla klìne, versato dall’oinochòe (brocca), miscelato con acqua a seconda della gradazione e dell’aroma e arricchito con miele, spezie o formaggio grattugiato. La miscela così ottenuta poteva essere riscaldata o raffreddata utilizzando lo psyktèr, vaso a forma di bulbo collocato su di un piede alto e stretto, contenente acqua calda o neve. I vari oggetti usati per il vino e la tavola vengono chiamati con i loro nomi greci perché il nome etrusco è spesso sconosciuto oppure incerto.
Gli Etruschi producevano un vino giallo dorato, aromatico e molto profumato. Era comunque simile a succo d’uva, anche se talvolta più liquoroso di quello che siamo abituati a bere oggi. Il sistema di vinificazione aveva luogo in cantine scavate nel tufo e realizzate su tre piani. Secondo Argillae.eu, “L’uva si pigiava a livello del suolo (primo livello) e il mosto, attraverso apposite tubature di coccio, colava nei tini disposti nei locali sottostanti (secondo livello) in cui fermentava. Dopo la svinatura, il vino veniva trasferito a un livello ancora più profondo (terzo livello), adatto per la maturazione e la lunga conservazione.
Gli Etruschi vendemmiavano l’uva perfettamente matura, la trasportavano nelle cantine in racemi interi con casse di legno caricate da bestie da soma e depositavano il tutto in un tino fatto a tronco di cono. Una volta che il tino era pieno, un uomo a piedi nudi vi saliva sopra, premendo fino a frantumare e ad ammostare gli acini. Poi si aggiungeva acqua nel tino, all’incirca fra un ottavo e un decimo delle some dei grappoli depositati. Il mosto che se ne ricavava era appena la metà dell’uva, la fermentazione si compiva fra i cinque e gli otto giorni, la verifica veniva fatta con un assaggio finale in piccoli contenitori da alcuni esperti selezionati che si riunivano a banchetto. Terminata la fermentazione, si spillava il vino per travasarlo nella botte, in modo che uscisse dalla cannella spoglio di feccia. Si procedeva allora a un ulteriore momento della vinificazione: l’uomo entrava nel tino e iniziava ad ammostare gli acini che non erano stati bene infranti o che erano rimasti fra le vinacce, finché attraverso le fasi della svinatura si arrivava ad avere un vino di qualità B (antenato dell’attuale torchiato)”.
Un sistema davvero raffinato! Una produzione viticola che doveva essere influenzata da quella greca: anche gli Etruschi producevano il vino picatum, a cui cioè veniva aggiunta pece. Il nome dei vasi e calici etruschi, anch’essi di origine greca, fanno emergere l’importanza che ebbero i Greci nella diffusione del vino e l’importanza della loro lingua in quella cultura. E certamente tale influsso non si sentiva meno in ambito religioso! Tra le divinità più importanti per la religione etrusca vi era Fufluns, il cui nome derivante dalla radice puple, “germoglio”, va messo in relazione con la “forza rigogliosa della natura”. A partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. , Fufluns prese tutti gli attributi del dio greco Dioniso, con cui venne presto identificato. Immagini di Fufluns-e grazie all’influenza della cultura greca, che aveva elaborato diversi miti sull’infanzia di Dioniso, anche della sua giovinezza- sono frequenti su diversi oggetti quali specchi, urne e ceramiche.
Riporta Cinzia dal Maso che “Nel V sec. a.C. il suo culto è attestato a Vulci in relazione alla coltivazione della vite, attività che rivestiva grande importanza nell’economia cittadina. Nel suo profondo legame con il vino e con l’ebbrezza che ne deriva dovette sovrintendere ai banchetti tanto amati dagli etruschi e allietati da danze, canti e giochi”.
Nel IV secolo a.C. ebbero la loro massima diffusione i culti dionisiaci, specialmente tra i ceti aristocratici, e da qui, secondo Tito Livio, dovettero diffondersi anche verso Roma. L’etruscologo Mario Cristofani scrive che “la partecipazione alle cerimonie segrete in onore del dio, nelle quali si entrava in una specie di possessione rituale, garantiva agli iniziati una sorta di evasione dalla realtà, attraverso l’ebbrezza del vino, che poteva prefigurare un destino felice nell’aldilà. I temi dionisiaci diventano così frequentissimi nella ceramica figurata del IV sec. a.C.”
Nella cultura etrusca, in effetti, il vino ebbe un notevole rilievo, oltre che nei sacrifici rituali in onore degli déi, compiuti dal sacerdote sull’altare, sia nei banchetti dei vivi che in quelli dedicati ai defunti di nobile stirpe.
Durante i banchetti il vino, che veniva servito in tavola in brocche metalliche o in ceramica, veniva arricchito con miele, spezie o formaggio grattugiato. Esso veniva sempre servito con acqua, anche perché consumare vino da solo era considerato un’usanza poco elegante, o addirittura barbara. Dopo le libagioni e fra profumi d’incenso, atti recitati, giochi e canti, il simposiarca dirigeva il simposio, la parte finale del banchetto, dedicata al vino, distribuito fra i “pari”, di ceto aristocratico. Il simposiasta, che come abbiamo visto era accompagnato dalla moglie, “giaceva semisdraiato sulla klìne con il gomito sinistro appoggiato al cuscino e il vino veniva versato dall’oinochòe (la brocca) nel cratere, e miscelato con acqua a seconda della gradazione e dell’aroma. La miscela così ottenuta poteva essere riscaldata o raffreddata inserendo al centro del vaso lo psyktèr contenente acqua calda o neve”.
Se l’idea degli Etruschi di banchetto, quella di un momento di coesione comunitaria e sociale, è stata mutuata dal mondo greco, bisogna notare che la maggior parte delle raffigurazioni antiche di banchetti sono collegate al contesto del mondo funerario, quali urne cinerarie, i bassorilievi delle stele e dei cippi o degli affreschi parietali delle sepolture, come quelle di Tarquinia. Tuttora ci si interroga sul significato di tali materiali: sarebbero rappresentazioni della vita nell’aldilà, ricordi della vita terrena, o richiami alle cerimonie tenute in onore del defunto? Non vi è una risposta univoca.
Preziosi vasi, kantharos e coppe sono stati ritrovati nelle tombe etrusche, dove venivano posti per consentire al defunto di banchettare anche nell’aldilà. Nella Tomba dei Rilievi ritroviamo, a corredo di pareti e pilastri, una serie di oggetti da utilizzare nel simposio: un mestolo per mescere e consumare il vino, una brocca, una coppa; nella Tomba dei Colatoi di San Cerbone ritroviamo, come corredo, i colini utilizzati per filtrare il vino. La presenza di queste suppellettili nelle tombe testimonia l’importante funzione del vino nel rito di passaggio nell’aldilà. Si veda, ad esempio, la Tomba dei Leopardi di Monterozzi a Tarquinia (qui sotto), del 473 a.C., in cui le pitture parietali rappresentano scene di banchetti nei quali i partecipanti bevono in modo smodato, mentre i morti assistono. Potremmo commentare, scherzosamente.. oltre al danno, la beffa!

dacomo 10/3/2021