mangiare bene, bere meglio
LA MACCHINA DEL TEMPO
I CAFFE' DI TORINO, I PIU' BELLI D'ITALIA - 1a PARTE
I primi locali adibiti alla mescita sono documentati già nel Cinquecento, ma risale all'Ottocento la loro grande diffusione e trasformazione. Ben presto essi si specializzano e si differenziano per arredi e dimensioni: bar e vermouthieri hanno di solito spazi più ridotti e arredi più sobri rispetto ai caffè. I caffè, segnalati all'esterno da una devanture in legno, sono spesso costituiti da numerosi locali il cui arredo ripropone l'atmosfera del salotto elegante. Le diverse sale, ognuna con una specifica funzione (sala lettura, sala gioco, fumoír, ritrovo per le signore), rivestite da alte boiseries, accolgono poltrone e sofà imbottiti da velluti e broccati, lampadari di cristallo, dipinti e decorazioni a soffitto. Il bancone è sovente in legno pregiato con inserti in ottone e piano in marmo, mentre le scaffalature retrostanti sono sorrette da colonnine tortili con una superficie specchiante che moltiplica bottiglie e contenitori. Tra Otto e Novecento l'arredo dei caffè muta con l'evoluzione del gusto e sparisce la distinzione dei locali. La progettazione e l'esecuzione dell'interno e dell'esterno della bottega sono affidate ai più valenti artigiani e professionisti. Per i banconi, dalla sagoma più articolata, si usano marmi screziati e inserti in rame e ottone, con piani spesso in alluminio e stagno. Compaiono le prime macchine per il caffè espresso. Le realizzazioni successive ripropongono invece lo stile aristocratico del salotto piemontese, con ambienti di ispirazione settecentesca. I ristoranti si differenziano secondo la loro ubicazione: le locande poste sulle vie d'accesso alla città garantivano, oltre al cambio dei cavalli, un ristoro economico per i viaggiatori e nel tempo si sono trasformate in trattorie. Dall'evoluzione dell'attività di confettieri, distillatori e acquacedrari nascono invece in città nuovi ed eleganti locali per la ristorazione, di cui il Cambio rappresenta un caso esemplare.
Storico caffè situato di fronte al Santuario della Consolata, conserva intatta l'atmosfera accogliente di una tipica cioccolateria dell'Ottocento. Qui si servono le specialità torinesi: zabajone, vari tipi di cioccolato in tazza e il "bicerin".
Aperto nel 1763 dall'acquacedratore e confettiere Giuseppe Dentis in un fabbricato preesistente a quello attuale, è poco più che un'osteria arredata con modestia di fronte al Santuario della Consolata. A metà Ottocento il palazzo viene ristrutturato, il locale si rinnova e prende il nome di Caffè della Consolata, ben presto sostituito dalla denominazione odierna "Al Bicerin" in onore della corroborante bevanda che rinfrancava gli avventori. Fin dall'inizio del secolo scorso, il caffè è gestito dalla famiglia Cavalli, che abita nell'ammezzato collegato al retro del negozio con la scala a chiocciola. Olga Cavalli ne lascia la gestione nel 1975 al proprietario dei muri, Guglielmo Alberghini, cui succede Maria Teresa Costa nel 1983. La bevanda costava 20 centesimi e verso il 1840 diviene esclusiva dei caffè più in voga della città. Discendente dalla bavareisa, servita in grandi bicchieri di vetro, già miscelato e dolcificato con sciroppo, il bicerin era una bevanda da assaggiare calda, tassativamente prima di mezzogiorno. Il caffè è frequentato da personaggi di ogni ceto sociale: da Camillo Cavour, Silvio Pellico, Alessandro Dumas padre, Giacomo Puccini, a fiorai, ambulanti, vetturini e chi, dopo la messa alla Consolata, viene qui a fare colazione. In epoca più recente il locale è stato meta di tanti protagonisti, italiani e stranieri, del mondo dello spettacolo, dell'arte, della politica e della cultura.
Dal 2006 al locale è affiancato un ulteriore ambiente, sulla sinistra, adibito a vendita dei prodotti della confetteria.
Lo storico locale aperto in contrada di Po sul finire del Settecento divenne, durante la Restaurazione, uno dei punti di ritrovo della nobiltà e per le sue frequentazioni luogo anche celebrato come caffè dei “codini”.
Dal periodo postunitario più volte rimaneggiato, è oggi, tra i numerosi caffè storici di via Po, uno dei pochi in attività.
“Che si dice al Caffè Fiorio?”. Sembra che con questa domanda tutte le mattine il re Carlo Alberto (1798-1849) aprisse le sue udienze, e a ben donde per un locale che, aperto intorno al 1780, rilevato poi dai fratelli Fiorio all’inizio dell’Ottocento, era diventato negli anni della Restaurazione il ritrovo preferito di intellettuali, aristocratici, ufficiali e diplomatici. Certo, il fatto che fosse conosciuto anche come caffè dei “codini”, dei “machiavelli” o peggio ancora caffè “Radetzky” (dal nome del generale austriaco che sconfisse i piemontesi nella prima guerra d’indipendenza nel 1848-1849) la diceva lunga sulle frequentazioni politiche del locale: irriducibili conservatori che si contrapponevano agli ardenti patrioti del caffè Calosso di via Dora Grossa, ora via Garibaldi. E la sua fama passò anche in letteratura se nel 1845 un anonimo scriveva: «Di nobilitade emporio/ chiuso alla plebe vile/ risplende il caffè Fiorio/ che in sua grandezza umile/ solo ornamenti apprezza/ del tempo di Noè:/ evviva la bellezza/ del nobile Caffè». Sempre nello stesso anno il locale venne rinnovato nell’aspetto grazie a divani di velluto rosso, specchiere, affreschi e sculture di celebri artisti come Francesco Gonin (1808-1889) e Giuseppe Bogliani (1805-1881). Ma frequentato anche dalla borghesia cominciava a non essere più il Fiorio di una volta, tanto che nel 1850 cambiò il nome in "Caffè della Confederazione italiana. Si dovette aspettare la fine del secolo perché la nobiltà ricominciasse a frequentare le dorate sale del “Caffè Fiorio”.
Con l’installazione dell’illuminazione a gas, in uso dal 1838, il modo di vedere e concepire gli ambienti interni cambiò notevolmente, non a caso nel 1845 vennero fatti importanti lavori di restauro all’interno del locale. A quest’epoca risalgono i salottini con divani e le sedie in velluto cremisi, ripresi e rimaneggiati nei primi del ‘900, le specchiere preziose che decorano le pareti e gli stucchi delle due sale principali, con modanature a motivi floreali.
Il locale ha subito nel periodo postunitario una lunga serie di rimaneggiamenti e ampliamenti tra i quali si segnalano, nei primi anni del Novecento, l'ingresso a bussola da via Bogino, l'allestimento della sala d'accesso verso il 1920, probabilmente nello stesso periodo in cui inizia, con la famiglia Sodano, la produzione e la vendita dei suoi rinomati gelati, e la creazione nel decennio successivo della sala da ballo e la formazione dell'attuale devanture
Sotto i portici dell’omonima piazza nel palazzo seicentesco già dei Turinetti di Priero, è uno dei caffè di più antica tradizione della città. Per anni roccaforte risorgimentale e poi ritrovo di uomini politici, intellettuali e artisti, il caffè storico è oggi famoso soprattutto per gli ambienti sfarzosi, arredato con stucchi, statue e marmi pregiati e per le sue pregiate miscele di caffè.
Il caffè San Carlo nasce all'inizio dell'Ottocento conosciuto anche con il nome di Caffè di piazza d'Armi, recuperando l'antica denominazione della piazza; fu uno dei primi caffè torinesi a dotarsi di decorazioni esterne per sottolineare il suo ingresso e a sperimentare l'illuminazione a gas.
Chiuso nel 1837 per «attività sovversiva», riapre dopo pochi mesi come Caffè Vassallo dal nome del nuovo proprietario, sotto il vincolo "a non favorire [...] coinvolgimenti con la politica, l'azzardo, disordini di alcun tipo".
Per rilanciare il locale, Vittorio Vassallo chiama l'architetto luganese Giuseppe Leoni che nel 1839 realizza la facciata di disegno classico, pregevole portale da tempio greco, in marmo con colonne doriche binate, trabeazione festonata con tanto di acroterio a palmette, gravemente danneggiata nell'ultima guerra e purtroppo sostituita. Al 1840 risale l’avvio dei primi lavori di decorazione interna: il salone centrale ad opera del Leoni, con lesene dorate, capitelli corinzi, grandiose specchiere ancora conservati .
Dopo vari cambi di gestione, il caffè rimane chiuso tra il 1883 e il 1893. Riapre nel 1894 e sensibile alle mode del tempo, si dota di una sala da concerti, una sala moresca e una veranda invernale, ora scomparse.
Il Caffè, diventato un salotto intellettuale di riformisti durante l’epoca risorgimentale, luogo di ritrovo di tanti esuli, frequentato tra gli altri da Cavour, D'Azeglio e Alessandro Dumas padre, ha avuto nel corso degli anni successivi una vasta clientela di intellettuali e politici, da Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi. Assidui avventori sono anche i Sei di Torino, protagonisti del movimento pittorico tra i più significativi del Novecento italiano; qui venne progettata dal Duca degli Abruzzi e dall’ammiraglio Cagni la storica missione in Antartide con la nave Stella Polare.
Durante la guerra, i danni provocati dai bombardamenti del ‘42, sono stati gravissimi; il caffè devastato da uno spezzone incendiario è costretto a una nuova chiusura. I lavori per il restauro e la parziale ricostruzione del caffè iniziati nel 1953 durano dieci anni. Demolita la facciata ottocentesca, sostituita da serramenti moderni bordati in granito e porte d'ingresso arretrate in bussola e rialzate, restano solo, in parte ricostruite, le due sale con ingresso dalla piazza San Carlo.
Questo piccolo gioiello dell'architettura per il commercio di epoca liberty conserva intatta l'atmosfera dell' elegante locale torinese.
Nella seconda metà dell'Ottocento Almicare Mulassano, titolare della distilleria Sacco nota per la menta, apre una liquoreria in via Nizza 3 e nel 1907 la trasferisce in piazza Castello, lungo i cosiddetti "Portici della fiera" caratterizzati, dal secondo Ottocento, da un sistema di arredi commerciali di alta rappresentatività (1).
Devanture e arredi interni, con il disegno tutti gli accessori, sono opera dell'ingegnere Antonio Vandone di Cortemilia, realizzata da alcuni dei migliori artigiani dell'epoca, illustrata dalla prestigiosa rivista Architettura Italiana del 1909, tra i migliori esempi dell'architettura per il commercio dell'epoca per coerenza formale e per la raffinatezza dei materiali e della loro lavorazione (2).
Tra il 1925 e il 1938 il caffè Mulassano è dei coniugi Nebiolo, giovani e determinati migranti piemontesi in America, tornati in Italia. Con la guerra il locale conobbe un periodo di declino, poi nuovamente venduto passa di mano fino al titolare Antonio Chessa che nel 1978 commissiona all’architetto Cesare Volpiano e alla ditta Nicola di Aramengo i restauri che riportano il caffè al suo originario splendore.
Dal 1985 riconosciuto Locale Storico d'italia, è uno dei più piccoli caffè della penisola con i suoi 31 metri quadrati di straordinaria esuberanza artistica che, al di là delle ampie vetrate, si presenta come un'intatta e importante testimonianza del gusto art nouveau.
Una botola in ottone conduce alla cantina, dove una volta si giocava a carte.
L'ampio locale d'angolo con affaccio sotto i portici di piazza Carlo felice e su piazza Paleocapa, il Caffé Talmone legato al celebre Marchio di cioccolato, conserva arredi originali affiancati a moderni mobili di design.
Michele Talmone fonda nel 1850 un piccolo laboratorio di lavorazione del cioccolato in Borgo san Donato che diviene rapidamente un’impresa di ampio respiro. La caffetteria per la degustazione dei prodotti Talmone viene inaugurata nel 1883 in via Lagrange, poi trasferita in via Roma angolo via Cavour nel 1912; cambiò nuovamente intorno al 1936 per stabilirsi nella sede attuale mentre si svolgevano imponenti lavori di trasformazione dell’ultimo tratto di via Roma, ribattezzato Caffè Roma già Talmone.
Nel 1983 a causa di aspre controversie tra proprietari dei muri e gestori è costretto a chiudere i battenti fino all’autunno del 2000 quando riprende l’attività di bar e di pasticceria, confezionata nei laboratori al piano ammezzato. Dopo un ampio intervento di ristrutturazione, il locale oggi si presenta come un insieme internamente piuttosto rimaneggiato, in cui si conservano buona parte di arredi d’epoca oggetto di restauro, affiancati da aeree seggiole firmate da Paolo Dominioni e lineari lampade sospese in cristallo, disegnate da Philip Stark.
1a PARTE - Fonte Museo di Torino
antonio.dacomo 9/5/2021