L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

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I VINI CHE FURONO - RASSEGNA DEI VINI NON PIU' PRODOTTI

2021-04-13 13:01:11

GLI SPUMANTISTI DELL'ITALIA DEL NORD

TRENTO CLASSICO EQUIPE 5
Il vino che vi voglio parlare oggi è uno spumante, penso che qualcuno di voi si ricordi, forse il primo di qualità a parte Ferrari che esisteva già. L'Equipe 5 lo producono ancora ma non è più un Trento classico ed è diventato un pò più commerciale, acquistato da altre realtà e prodotto in un'altra zona (Soave).
Era un Trentino che non sapeva ancora dove andare e cosa fare, quello degli anni Cinquanta. Era appena uscito dalla guerra e l’agricoltura era segnata da un’arretratezza quasi ottocentesca. La viticoltura ancora peggio: «Le pergole di Nostrana erano lunghe mezzo metro, ne poteva uscire solo acqua, in mezzo ai vigneti si coltivavano patate e carote. Eravamo alla sussistenza». Loro, la banda dei cinque – i magnifici cinque dello spumante -, avevano appena completato gli studi rigorosi dell’Istituto agrario di San Michele. E avevano voglia di guardare avanti. Giovani di belle speranze con la testa rivolta al futuro, pensavano a come cambiare il mondo, a come innovare la viticoltura: «Passavamo le nostre estati a viaggiare, Europa, Stati Uniti, Sud Africa, volevamo conoscere il mondo del vino fuori dai confini nazionali. Organizzavano tutto l’associazione degli enologi e quella degli ex allievi dell’Istituto. E fu durante uno di quei viaggi che cominciammo a capire che anche per noi il futuro avrebbe potuto essere costruito attorno allo spumante, anche attorno allo spumante».

A raccontarlo è Leonello Letrari, classe 1931. Un omone di ottant’anni che, insieme alla figlia Lucia, è capo di una delle maison – la cantina è a Rovereto ma si estende su 22 ettari lungo la valle dell’Adige fino Belluno Veronese – che dello spumante, Talento e Trento doc, rappresenta l’eccellenza italiana. Quest’anno ne “tireranno” 60 mila bottiglie. Ma torniamo ai viaggi: «Partivamo da una terra arretrata, ma non è che altrove vignaioli e cantinieri se la passassero meglio. Però c’era un però: ci rendemmo conto che all’estero, dal Portogallo alla Francia passando per la Spagna, c’era qualcosa che faceva la differenza: erano le maison dello spumante, cantine che sembravano salotti, tappeti rossi, vigneti coltivati come giardini di rose. Insomma tutta un’altra cosa rispetto alle nostre cantine e alle nostre campagne. Capimmo che lì giravano soldi, tanti. E anche tanta qualità e tante competenze». L’idea di Equipe 5 nacque così. Certo c’era già Ferrari. Ma quella da sempre è tutta un’altra storia. I magnifici 5 erano lui, il Nello, e altri 4 giovani che poi avrebbero fatto la loro gran bella strada: Bepi Andreaus, Riccardo Zanetti, Pietro Tura e Ferdinando “Mario” Tonon. Una parentesi. Nello, l’idea dello spumante aveva anche cercato di venderla ad una delle case vitivinicole più blasonate del Trentino: la Bossi Fedrigotti per la quale lavorava già da qualche anno. Stava lanciando sul mercato uno dei primi bordolesi italiani, prima del suo Fojaneghe c’era stato solo il Castel San Michele dell’Istituto. Fu un successo commerciale incredibile, un Sassicaia alpino ante litteram, il cui segreto stava in una miscela indovinata di innovazione, qualità e marketing: «In quegli anni il vino si vendeva a 150 lire, noi uscimmo con una bottiglia da 950 lire. Il Fojaneghe andò a ruba». Anche se fu bocciato dalla commissione di assaggio della Mostra dei Vini (“Vino legnoso e resinoso, vino greco”, fu l’incredibile verdetto), fu un successo che durò vent’anni e arrivò a sfiorare le 400 mila bottiglie. Anche da quella prima bottiglia di bordolese roveretano sono passati giusto cinquant’anni. E il gruppo Masi (Valpolicella), che oggi controlla la Bossi Fedrigotti, a giugno celebrerà il compleanno del Fojaneghe: Nello Letrari, naturalmente, sarà lì a raccontare quella storia. Ma torniamo all’Equipe 5. La Bossi Fedrigotti, a cui Leonello aveva proposto l’idea dello spumante, non accettò: «Non mischiare il sacro con il profano, mi dissero. E allora tornai alla carica con i miei compagni di viaggio». E così nacque Equipe 5; era il 1961, cinquant’anni fa appunto. Soci, quei cinque ex allievi di San Michele che giravano l’Europa, tutti fra i venti e i trent’anni. Detto fatto. La prima sede fu a Lavis, in un palazzotto dove Ferrari tempo prima aveva già trafficato con le sue bollicine, poi nelle cantine Pedrotti di Mezzolombardo, ex salumificio degli Asburgo. Fu una bella storia di successo quella di questo spumante trentino, una storiona lunga 25 anni: «Le uve erano quelle pregiate di Mazzon e dei Pochi di Salorno, selezioni attente di Chardonnay e Pinot Nero. La vinificazione ce la faceva Hoffstätter, poi la spumantizzazione, remuage e tirage , a Mezzolombardo». Nel giro di vent’anni i magnifici 5 passarono da poche migliaia a mezzo milione di bottiglie. Tanto per far capire la dimensione del successo, erano i tempi in cui Ferrari arrivava sì e no al milione. Equipe 5 divenne lo status symbol di una generazione da boom economico ma soprattutto lo straordinario veicolo di immagine di un Trentino da esportazione. Alla fine degli anni Ottanta per tante ragioni («Famiglia, salute, ma anche perché forse eravamo soprattutto artigiani e non imprenditori puri»), l’etichetta passa di mano e finisce di essere sinonimo della viticoltura a nord di Verona: prima il gruppo Buton, quello della Vecchia Romagna, poi Cinzano e infine Cantina di Soave, la coop veneta che da qualche anno ha resuscitato l’etichetta e ne fa un Brut all’altezza di quella prima grande bottiglia del 1961. Ma cosa ha lasciato questa bella storia spumantistica? «Mah, non so davvero cosa dire. La nostra idea fu innovativa, ma allora non fu capita, forse eravamo troppo avanti noi. A partire dal nome francofono che avevamo scelto e che per quei tempi, ancora quasi autarchici dal punto di vista linguistico, fu quasi una palla al piede: alla fine quasi tutti lo pronunciavano storpiandone il nome. Anche la cooperazione allora non capì: invece di scegliere con decisione la strada dello champenois, si buttò sugli charmat. Capite bene la differenza».
Leonello Nello Letrari, dalla bellezza dei suoi ottant’anni e reduce da un intervento a cuore aperto (30 anni fa), è ancora uno di quei giovanotti di belle speranze degli anni Sessanta che già allora, e oggi più di allora, avevano molte cose da dire e da insegnare. Ma soprattutto non è un uomo che vive di ricordi. Anzi, parla più volentieri del futuro che del passato (con quello ha già fatto i conti e lo ha archiviato in un prezioso libricino uscito qualche anno fa, a cura di Nereo Pederzolli, per ArtimediaEnoika: “Viti e vini di una vita”). Ma del futuro vuole parlare in grande, pensa alle strategie. Non vuole lasciarsi invischiare nelle polemichette e nei litigi che anche in questi giorni stanno annegando l’associazione dei Vignaioli: «Lasciamo perdere, qui si continua a litigare. E non ne esce niente di buono». Ma se gli chiedi un’opinione sul futuro dello spumante italiano non si tira indietro: «Questo per lo spumante è un momento magico, le vendite si sono impennate. Ora siamo dentro l’onda giusta e la dobbiamo cavalcare». Sì, ma come? «Abbiamo bisogno prima di tutto di un ombrello nazionale, un marchio italiano che racchiuda tutte le nostre esperienze spumantistiche. In Spagna hanno Cava, in Francia lo Champagne. Noi non siamo riconoscibili, siamo rimasti un arcipelago con tante eccellenze ma senza un marchio comune. Eppure uno strumento ce lo abbiamo, è il Talento (Nello, a suo tempo ne è stato uno dei fondatori, come è stato fondatore dell’istituto italiano spumante, ndr). Usiamo questo marchio per farci conoscere nel mondo, altrimenti, se ognuno fa per sè, come sta accadendo oggi, non andremo da nessuna parte». E il TrentoDoc? «Quello è un valore aggiunto, una storia da raccontare dentro la storia del Talento. Ma non basta per essere riconosciuti nel mondo. Se le istituzioni provinciali in questi anni hanno fatto qualcosa di buono è stato di credere nello spumante, ma non bisogna illudersi basti il nostro marchio locale per sfondare sui mercati mondiali. E poi andrebbe promosso in un altro modo». Come? Nello sorride e poi dice la sua da astuto uomo di marketing, oltre che di spumante, quale è: «Smettiamola di promuovere lo spumante solo negli hotel a 5 stelle, come se fosse un oggetto extra lusso. Lo spumante dobbiamo farlo bere a tutti. Invece di sponsorizzare le feste della birra si facciano le feste campestri dello spumante, con i calici ad un euro. Con tutti i soldi che si spendono in promozione, se solo un terzo fosse destinato a questo genere di iniziative avremmo già fatto un bel passo avanti. E invece vedo che si continuano a spendere soldi per grandi eventi destinati alle élite, ai vip che lo spumante lo bevono solo se glielo regali». Una bella provocazione, che arriva da un protagonista geniale e innovatore della viticoltura italiana. Un doppio anniversario (Fojaneghe ed Equipe 5) di cui in Trentino, tuttavia, quasi nessuno si è ancora accorto. Poco male: delle invenzioni e delle innovazioni di Nello Letrari si sono ricordati in Valpolicella e nelle valli padane.

BRUT METODO CLASSICO SEKT ALTO ADIGE STOCKER
Lo Spumante Sekt Stocker, Brut di montagna leggendario, da uve Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvignon. Sebastian Stocker, uno dei padri fondatori dell’enologia nazionale, ha prodotto per decenni un metodo classico senza paragoni. Grande mineralità, stupisce al naso con un lieve accenno di aromaticità tipica. Un vino di grande personalità dalla storia unica!

Sebastian Stocker, classe 1929, che della storica Cantina di Terlano ha gettato le fondamenta, battezzando una tecnica di cantina – il cosiddetto metodo Stocker, ispirato dall’esempio dei colleghi francesi – che dei grandi bianchi del territorio ha contribuito a tracciare una storia luminosa, esaltandone longevità e complessità aromatica attraverso una sosta prolungata sui lieviti fini (una lunghissima maturazione in botti di legno “sur lie”), seguita poi da anni di affinamento. La Cantina Sociale del Terlano, fondata nel 1893, lo accoglieva per la prima volta nel 1955, poco più che ventenne: solo nel 1993 si sarebbe ritirato nel suo maso sopra la cittadina altoatesina per dedicarsi, con suo figlio Sigmar, a produzioni indipendenti, con il pallino per gli spumanti (metodo classico), a base pinot bianco, chardonnay, sauvignon
Per 40 anni, però, è stato il Kellermeister di Terlano, e l’attività della cantina sociale l’ha fatta crescere, organizzandola al meglio, preservando una collezione di bottiglie che potessero raccontare la storia del luogo – l’archivio enologico tuttora custodito nel caveau, che conta oltre 100mila bottiglie – ma soprattutto guidando l’attività in vigna e in cantina con metodi innovativi, alla ricerca costante della longevità del vino, da uve bianche pinot e sauvignon. Facendo scuola. Ancora oggi, non a caso, le “rarità” della Cantina Terlano seguono la strada tracciata dal maestro, come si legge sul sito ufficiale della cantina: “Le annate migliori si fanno prima affinare in botti di rovere per un anno, poi si travasano in piccoli fusti d’acciaio da 2.500 litri, dove rimangono da 10 a 30 anni, avendo così tutto il tempo per sviluppare sui lieviti fini i loro aromi e la loro struttura complessa. Quando l’enologo ritiene che abbiano raggiunto il grado ideale d’armonia ed equilibrio, questi vini vengono imbottigliati, e fatti invecchiare per altri 4-5 anni prima di essere pronti per la mescita”. Perché secondo la filosofia impartita da Stocker, “prendersi il tempo e dare il tempo alle cose è forse il lusso più grande che possiamo immaginare”. Se i vini bianchi altoatesini oggi sono così apprezzati in Italia, e nel mondo, molto è anche merito suo.

SPUMANTE BRUT CARLO ZADRA
Di Carlo Zadra come enotecnico si scrive già nel 1960 quando, al primo incarico, vinifica in Trentino per primo al mondo una partita di uva “Lagrein” in rosso anziché in rosato ottenendo il Lagrein Dunkel in sostituzione del Lagrein Kretzer.
Nello stesso anno Carlo Zadra approda nella bergamasca dove ricostruisce, con la passione del tecnico rispettoso della terra, i vigneti obsoleti e contribuisce in prima persona alla nascita dei locali vini DOC.
Verso la fine degli anni ’70 tenta la strada delle bollicine e fa assaggiare in tre locali a Bergamo le sue prime prove da uve della sua terra d’origine. Lo spumante non porta etichetta e Luigi Veronelli, che lo assaggia, scrive con entusiasmo di “Anonimo”. Dagli anni ’80 la bottiglia si presenta con il nome proprio dell’autore ad indicare la totale assunzione di responsabilità da parte del suo creatore.
Da allora molti hanno scritto di CARLOZADRA spumante classico: oltre a Luigi Veronelli, Davide Paolini, Roberto Vitali, Gianni e Paola Mura, Elio Ghisalberti, Francesco Arrigoni, Gianni Reduzzi, Corradino Bigi, Felice campanello, Paola GIus, Antonio Piccinardi, Barbara Bazi, Tommy Capellini, Valerio Numerico, Mauro Remondino, Andrea Beghi, Renato Possenti, Daniele Cernilli, Pino Corrias su quotidiani, riviste, rassegne e cataloghi

Nato a Tres in Val di Non, Carlo Zadra arrivò a Bergamo, per la precisione a San Paolo d’Argon, come primo enologo della Cantina sociale bergamasca appena costituita. Era stato l’agronomo Bruno Marengoni a cercare in Trentino un giovane e bravo enologo uscito dalla Scuola enologica di Conegliano. Prima di arrivare in Bergamasca, Zadra aveva lavorato per due anni in una cantina di Mezzocorona, sempre in Trentino. La sua esperienza alla Cantina di San Paolo d’Argon durò cinque anni ma fu determinante per la definizione del disciplinare del Valcalepio, in particolare quello rosso. Durante quei cinque anni ci fu anche il matrimonio con Celestina, la ragazza che aveva lasciato in Val di Non e che sposò nel 1962 nel santuario di San Romedio, appunto in Val di Non. Carlo portò poi la sua Celestina in Bergamasca e da qui non si mossero più.
Dopo cinque anni alla Cantina sociale, Carlo Zadra passò a coprire il ruolo di enologo e direttore all’azienda Castello di Grumello, dove ha lavorato e risieduto sino al 1996, prima di trasferirsi nella cascina ristrutturata che aveva acquistato.
L’enologo Zadra va ricordato anche per le prime sperimentazioni in Bergamasca (insieme ad altre due aziende come Il Calepino e Medolago Albani) per la produzione dello spumante metodo Classico (l’equivalente dello Champagne), usando basi spumante di provenienza trentina e proseguendo la lavorazione a Grumello. Contento del suo prodotto, volle dargli il suo nome e cognome: nacque così il Carlo Zadra Brut, per anni (tra il 1980 e il 1990) sinonimo del bere bene a Bergamo e non solo. Oggi se ne occupa il figlio Paolo, che - conferma - il vino continuerà ad essere prodotto ed a chiamarsi Carlo Zadra, anche se nel frattempo la concorrenza è molto aumentata
antonio.dacomo 5/4/2000