L'UOMO DELLA TAVOLA

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I VINI CHE FURONO - RASSEGNA DEI VINI NON PIU' PRODOTTI

2021-04-12 19:03:29

I VINI FRIULANI DI VITTORIO PUIATTI, GIGI VALLE E DELL'ABBAZIA DI ROSAZZO

E chi di noi nati negli anni ’50 o ’60 non ricorda agli arbori dei vini friulani, tra i mitici Villa Russiz ed Enofriulia e le mitiche Etichette di Puiatti che mietevano i massimi punteggi all’epoca. Per non parlare del Ronco dei Roseti e del Ronco delle Acacie.

Dire Puiatti, ci riporta subito alla mente l’importante figura di Vittorio, classe 1927, uno di quei grandi pionieri del territorio come lo sono stati i Felluga, Schiopetto, Jermann che, con le loro idee e il loro lavoro, hanno creato le basi per i futuri successi del territorio. Vittorio Puiatti inizia a lavorare negli anni ’50 come enotecnico preso la Tenuta di Villanova ed è lì che impara le prime importanti nozioni sulla spumantizzazione, che saranno la base per una passione che trasferirà anche nella futura azienda di proprietà. Una decina di anni dopo va a lavorare presso la cantina sociale di Codroipo e dopo il matrimonio con Leopoldina, decide di fare una nuova esperienza andando a ricoprire il ruolo di direttore, in zona Chianti, presso il ramo vino dell’azienda Bertolli, famosa soprattutto per la produzione di olio. Qui entra in contatto con l’affascinante mondo del Sangiovese e inizia ad acquisire importanti conoscenze sui vini del Chianti e le differenze che il vitigno è in grado di esprimere in tutte le sue zone, affinando anche importanti doti di commerciante, poiché svolge anche il ruolo di acquisitore di uve, da aziende della Puglia e delle Marche. Da buon friulano però, sente il richiamo della sua terra e decide di fare ritorno a casa alla fine degli anni ’60. Punta decisamente sulla zona del Collio che al tempo non aveva ancora una sua definita identità, ma di cui percepisce le enormi potenzialità. Nel 1967 Vittorio fonda una sua azienda che inizialmente si chiamerà Enofriulia. Agli inizi dell’attività non ha vigneti di proprietà ma compra le uve da conferitori delle migliori zone del Collio, monitorando personalmente le varie fasi in vigna e vinificando le uve nella funzionale cantina di Capriva del Friuli. Con i primi introiti, iniziano anche i primi acquisti di vigneti che, anno dopo anno aumenteranno in quantità fino ad arrivare a contare quasi 60 ettari di proprietà. Per anni e anni ci delizierà con grandissimi vini col nome di Giovanni Puiatti.

Vittorio ci lascerà purtroppo nel 2001, ma l’azienda, oramai, ha basi ben consolidate. La seconda generazione, formata dai figli Giovanni ed Elisabetta, in linea con la storia della famiglia, prosegue il percorso tracciato dal padre, mettendoci la propria freschezza e le proprie idee. Nel 2003 iniziano i lavori della nuova cantina a Romans d’Isonzo, ubicata in prossimità dei vigneti di proprietà. E’ una struttura pensata per essere più funzionale, moderna, e permettere di aumentare la produzione. L’inaugurazione, avvenuta nel 2008, ci regalerà una bellissima struttura, ma per sostenere i costi di comunicazione e commercializzazione, necessari per affrontare i mercati esteri in modo adeguato, servirebbero produzioni ancora maggiori o magari affidarsi a qualche importante partner con cui realizzare un’intesa commerciale. Quando si avvicina l’importante gruppo farmaceutico della Tenimenti Angelini con un’allettante offerta per l’acquisizione dell’azienda, i dubbi sono tanti. Vengono però valutati anche i benefici che un gruppo con un’organizzazione così importante avrebbe portato, permettendo di puntare senza patemi ai mercati esteri e consolidare così l’azienda. Nel 2010 l’azienda Puiatti passa sotto la proprietà del gruppo Tenimenti Angelini e l’accordo che ne consegue porta Giovanni a diventare direttore responsabile. Viene pattuito che si continuerà a lavorare nel pieno rispetto della filosofia produttiva della famiglia, senza stravolgere una storia e un marchio oramai vincente. A un iniziale rapporto in piena sintonia, seguiranno dei contrasti, causati soprattutto da un’inversione di rotta che la proprietà decide di compiere, puntando tutto sul business ad ogni costo, senza curarsi di quello che era stato il percorso intrapreso fino a quel punto dalla famiglia Puiatti che invece vedeva il vino con occhi più filosofici e romantici, simbolo di cultura di un territorio.
Dal 2014 Giovanni e Elisabetta Puiatti portano avanti la cantina storica conl nime Villa Parens

I VINI FRIULANI DI VALLE
Gigi Valle, il patriarca dei vignaioli friulani, oltre che pioniere e ambasciatore dei vini friulani nel mondo, le prime etichette di rilievo nel Friuli, sempre superpremiate.
Oggi se ne occupano i figli…ma questa è un’altra storia
Gigi Valle racconta, per andare al Cerletti di Conegliano ho dovuto attendere che terminasse la guerra. Sono quindi entrato nel 1945 e mi sono diplomato perito agrario nel 1950 e poi ho preso la specializzazione in enologia, sempre al Cerletti che è la più antica e rinomata scuola enologica italiana. Ho avuto come docenti, fra gli altri, due grandi celebrità, fra i più stimati scienziati dell’enologia del secolo scorso, Italo Cosmo e Luigi Manzoni, con i quali ho poi intrattenuto cordiali rapporti personali e diverse collaborazioni professionali. Poco dopo essere uscito da Conegliano, nel 1952 ho aperto uno studio di consulenza enologica in piazza Venerio a Udine, il primo in regione e ho fondato l’Enotecnica Friulana che è ancora attiva. Ho fin da subito collaborato con molte aziende e nel corso degli anni ’60, dopo aver conosciuto bene il nostro territorio e come i nostri vignaioli producevano il vino, ho preso in affitto una cantina a Buttrio e, qualche anno dopo, ho costruito la mia cantina, al n. 3 di via Nazionale, sempre a Buttrio e sono ancora qui con mia moglie Dina e i miei figli Paolo, Marco e Ilaria, tutti tre in azienda.”

Realizzata la grande cantina – probabilmente il primo edificio in Friuli Venezia Giulia eretto come cantina – ricco di conoscenze tecniche e di esperienza, Gigi Valle deve scegliere la sua linea produttiva.
“Credevo e credo nella tradizione viticola, nei nostri vitigni storici: il Tocai (oggi Friulano), la Ribolla Gialla, il Refosco dal peduncolo rosso, il Picolit, ma capivo che il mondo voleva anche i vini internazionali, Chardonnay, Sauvignon, Pinot grigio, Cabernet Sauvignon, Merlot. Dapprima ho preso in affitto delle campagne dove ho rinnovato le viti, poi ho acquistato una bella tenuta a Rosazzo, sotto l’antica casa-fortezza, eretta nel lontano passato a protezione dell’Abbazia e ho continuato a coltivare sia i vitigni tradizionali friulani che quelli internazionali.”
Questo per quanto riguarda le viti, nel rispetto della tradizione regionale, ma anche attento al mercato internazionale. E per il vino?
“Ecco – qui Gigi Valle si fa serio. – Quando ho iniziato a vinificare le mie uve non potevo tradire gli insegnamenti che avevo ricevuto da grandi studiosi, apprezzati e seguiti anche a livello internazionale, né potevo operare diversamente dalle consulenze che avevo dato all’imbottigliamento completato, senza che il vino sia in nessun momento a contatto dell’aria.
Avevo dunque un obiettivo ben preciso: produrre, con l’ausilio di una adatta tecnologia, un vino buono e sano, ben caratterizzato dai propri profumi ed aromi, immune da ogni impurità, compresi i lieviti morti, senza aggiungere prodotti strani e quindi non modificato in tutta la fase di fermentazione dei mosti e poi fino alla fine.

In giro c’erano allora tanti discorsi a proposito del vino-vino, del vino-naturale, del vino-ideale. In quegli anni a Conegliano c’era un grande docente e tecnico del vino, Tullio De Rosa, il quale affermava che il vino, per sua natura, diventa aceto se non interviene l’uomo con i mezzi offerti dalla tecnologia che in quegli anni si andava sviluppando, soprattutto in Germania, grazie anche a quanto avveniva nelle fabbriche di birra.
E chi non ricorda com’erano allora, all’inizio dei mesi caldi, i vini nelle nostre cantine di campagna? Erano ogni giorno sempre più acidi fin da diventare perfetti per condire l’insalata. Scelsi dunque di affidarmi alla tecnica, scegliendo in particolare tutte le componenti della macchina per l’imbottigliamento, arricchendola da componenti da me pensati, totalmente innovativi.”
In quegli anni c’è stato il deciso ingresso di una seria tecnologia nelle cantine, per cui anche i vini del Friuli Venezia Giulia hanno iniziato a conquistare il mondo.
“Certamente sì e il merito va, oltre che ai vignaioli e agli enologi sempre più presenti nelle cantine, al generoso impegno di Isi Benini, all’intelligente lavoro promozionale del Ducato dei Vini Friulani, dei Consorzi di Tutela e di tante altre persone che, nei loro ambiti, hanno creduto e sostenuto il rinnovamento. Io, intanto, avevo capito una cosa. Che il vino vero è quello che esprime se stesso, i suoi profumi, i suoi aromi e lo si riconosce immediatamente.
Non deve avere fondi morti che fanno solo male, per cui in questi casi il vino non può essere definito buono; non deve essere a contatto dell’aria in tutta la fase di imbottigliamento e le bottiglie devono essere accuratamente lavate, asciugate e sterilizzate. Così operando, quando si apre una bottiglia si vede il colore vero - naturale - del vino non offuscato da residui, se ne sente il profumo vero senza interventi estranei e un vino così prodotto dura a lungo rimanendo perfetto, regalando il suo fascino anche dopo molti anni.”

IL RONCO DEI ROSETI E IL RONCO DELLE ACACIE - ABBAZIA DI ROSAZZO
Dall'inizio degli anni '80 fino ad oggi il Ronco dei Roseti ha rappresentato una delle risposte friulane più importanti alla main stream bordolese, quale puro intrìco amoroso di cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot, riuscendo nell'impresa di rivelarsi vino caratteriale e distintivo, di spessore certo e stoffa buona, al punto da ergersi a faro della produzione vinicola di qualità, e non solo della sua regione. Dietro il successo, o meglio, l'essenza del Roseti, ci stanno le vigne della collina di Rosazzo ed il loro microclima, unico dai Colli Orientali; ci sta lo stile di una famiglia, la Zamò, che generazione via generazione, sia pur a fronte di un'ampia gamma di etichette prodotte e di una inevitabile espansione vitata, ha perpetuato con costanza e perspicacia il tocco intelligente ed avveduto del vero vignaiolo. Ci sta la collaborazione, a partire dal 1989, di un enologo a nome Franco Bernabei. Ecco, da tutto questo si capisce appieno il senso del titolo. Sì, assaggiare oggi Ronco dei Roseti, cercare di comprenderlo in retrospettiva, alla luce del tempo trascorso, mi ha significato comporre un piccolo, meritato elogio all'eleganza: per il vino certo, ma anche per la terra e per i vignaioli veri che, in quella terra, ci credono.
Dell'incontro con la famiglia Zamò e con Franco Bernabei conservo molti ricordi, ben oltre le parole dedicate ai vini. Di Silvano Zamò l'impetuosa simpatia e la voglia malcelata di far conoscere i profumi e i sapori della sua terra, di attaccarti istintivamente la voglia di camminarla; di Franco Bernabei la sapienza tecnica e l'approccio professional-divulgativo della sua materia, impeccabile, sempre alla ricerca di quella sospirata unione tra scienza ed empirismo che mi appare come la costante della sua pluriennale e luminosa attività enologica. Dalla unione dei loro intenti l'idea di una squadra affiatata e felice e una consapevolezza in più: per fare un grande vino, o meglio, per fare una grande vigna, occorre rispettare i tempi di campagna: equilibri, rispondenze, simbiosi hanno bisogno di almeno una decade di vendemmie per rivelarsi. Da lì la conseguente personalità, da lì l'indirizzo stilistico, da lì la suggestione del terroir dentro al tuo bicchiere.

Oggi i vini sono ancora prodotti con il Marchio Le Vigne di Zamò.
Ronco dei Roseti 1985. Veste compatta e sicura, densa - non una smagliatura- per un impianto aromatico peculiare e intenso, giocato su vive insistenze balsamiche innestate sul frutto fitto dell'amarena e del ribes, impreziosito da liquirizia, incenso, terra&bosco, chinotto, spezie e legno di cedro. Molto affascinante il quadro che ne trai, che si fa più esotico ed intrigante man mano che l'aria lo conquista. In bocca mi regala stoffa buona ed orgogliosa tenuta, tutto linearità e ordine, non una cosa superflua in più, non una ridondanza. Finale di sincera coerenza, sia pur non lunghissimo.
Ronco dei Roseti 1990. Assai più ritroso a concendersi rispetto all'ultimo mio assaggio di due anni fa, il Roseti '90 vuole ossigeno per aprirsi, non c'è dubbio. D'impatto poi ti assomiglia al 1985, per le note di chinotto, di liquirizia e per quel substrato vegetale che ne delinea, una volta di più, la provenienza sua friulana. Qui tuttavia il frutto - ancor rosso - forse è più maturo. Il palato ha un ingresso diffondente, cremoso e denso, che tende poi a disperdersi quando entra in gioco l'apparato tannico, rigido e leggermente ruvido, a screziarne l'abituale, elettiva eleganza. Lunga la scia.
Ronco dei Roseti 1992. Belli i cromatismi, lodevole la compattezza. Al naso spezie orientali, chinotto, incenso, cioccolato fanno da corolla ad una bella fantasia fruttata in odor di mora, regalandoti un approccio molto caldo sia pur non intensissimo. Un'acidità birichina e giovanile fa da contraltare ad un impianto ben tessuto, molto elegante, dove la sostanza fruttata non lesina e si fa tenuta in un finale in crescendo, polposo e fitto, con la trama tannica morbida e filigranata a ricucire e perpetuare.
Ronco dei Roseti 1994. Compatto, bello , pieno, vivo già al primo sguardo, si conferma prim'attore al naso, eccezionale per maturità, sfumature, nitidezza, insistenza. Ancora una volta hai l'imprinting di spezie ed incenso su sensualissime evidenze di frutti neri del bosco, frutta secca, balsami fini. Bocca sontuosa e vellutata, di elettiva continuità e dedizione, che sale e si espande: bella, piena pure lei, mi appare aristocratica e oltremodo struggente nelle note di goudron e terra bagnata. Grande la spalla, per un grande abbraccio.
Ronco dei Roseti 1997. Il naso mi appare ancor mutuato nelle sorti dagli influssi dolci del rovere, ciò che ne rende il quadro come "impastato". Qui le spezie intriganti della sua essenza fanno i conti con note empireumatiche di caffé tostato. Croccante la nota vegetale, confortevole la terra, fragranti i fiori. Bocca spessa e ricca con curiose screziature aromatiche sulla via. C'è succo però, e dolcezza di fondo, ad ammaliare i viandanti. Lodevole la maturità tannica. Un Roseti da attendere e pur tuttavia dall'apparato aromatico meno sfumato, aereo, rarefatto ed elegante rispetto agli standard, che con l'aria tende a confondersi anziché a rivelarsi fulgido.
Ronco dei Roseti 2000. Intenso e compatto nella veste scura, sa unirvi l'incanto di un naso pieno, fruttato, profondo, sensuale, propositivo, pregno di aspettative e calor buono. È nero il frutto, bello, carnoso, su innesti sfumati di tabacco, cioccolato, terra bagnata, vaniglia. In bocca naturalmente è ancora giovane, ma dalla sua gioventù ne apprendi di già la dolcezza, l'accoglienza, la sontuosa ricchezza, l'immancabile raffinatezza. Nonostante la percepibile spalla ti affascina per la sorprendente beva di oggi, tanto accattivante al punto che resistergli potrebbe apparirti come una forzatura dell'istinto. Circa il suo futuro..... son veramente rose.
 antonio.dacomo 20/4/20