Luca Sansone

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La fine delle pensioni (come le conosciamo noi)

2019-07-26 08:25:22

( Marco Liera ) Mi hanno raccontato il caso di un bancario (lo chiameremo Gino) con un fisico d’atleta che è andato in pensione a 54 anni, continuando però a lavorare.

Ciò non si è verificato 20 anni fa.

Non 10 anni fa.

Bensì due anni fa.

Ovviamente, questo è dovuto a una serie di condizioni rare (ma come insegnava Albert Einstein, non giudicate i fenomeni dalle medie, bensì dalle eccezioni).

Gino aveva cominciato a lavorare in una macelleria a 14 anni (tanto di cappello), e un po’ di anni dopo era entrato in banca, avendo incrociato quella finestra storica irripetibile in cui la domanda di manodopera bancaria era talmente alta rispetto all’offerta che bastava un diploma di terza media per farne parte. Un paio d’anni fa, come in molte altre aziende, nel suo istituto hanno deciso di tagliare i costi e quindi di liberarsi di un certo numero di dipendenti, tra i quali Gino. Il settore bancario ha un suo sistema “prepensionistico”, chiamato fondo di solidarietà, interamente finanziato dalle aziende e dai dipendenti del settore, che copre fino a sette anni di reddito in attesa della maturazione della pensione, come è stato garantito a Gino. Quindi il nostro ex-macellaio è uscito dalla banca, ed è entrato in solidarietà, per tornare a fare il macellaio (arte di cui pare ci sia una certa richiesta). Un’attività questa, che non è in conflitto con quella bancaria, e quindi esercitabile legittimamente anche per chi fruisce del fondo di solidarietà.

Tutto normale, tutto lecito. Tra l’altro, sottolineo, senza oneri aggiuntivi per i contribuenti (però non lamentatevi se i costi del risparmio gestito collocato in banca sono alti, perché servono anche a finanziare il fondo di solidarietà - oltre che la compliance imposta dai regulators, gli stipendi dei grandi capi, etc.). La sola domanda è: per quanto tempo potrà sopravvivere questo colossale trasferimento di risorse dalla produzione alla rendita basato sulla ripartizione? 


Non ci vuole il genio di Einstein per capire che non potrà durare molto, perché si tratta di un modello basato su una combinazione di condizioni demografiche e economiche storicamente rare. 


Non mi sorprenderei se tra qualche decennio il concetto di pensione come lo conosciamo noi venisse archiviato come un trasferimento di risorse fattibile solo per un periodo storico limitato e solo per una minoranza dell’umanità. 


Non stiamo parlando di un problema italiano. A parte qualche benpensante e molti politici a caccia di voti, in tutto il mondo “sviluppato” (quindi una minoranza dell’umanità, il resto è da sempre senza pensione, pensate solamente alla maggiorparte dei cinesi) aumenta drammaticamente la percezione di insostenibilità dei sistemi a ripartizione, che alla base sono degli schemi Ponzi, che come tali rendono felici solo quelli che escono prima per ragioni anagrafiche. Basti vedere quello che succede in Svizzera e negli USA, che hanno sistemi previdenziali per ora molto più equilibrati del nostro.  

La fine delle pensioni come le conosciamo noi sarebbe l’inizio di un suicidio collettivo? Assolutamente no. Primo perché l’umanità per la maggior parte della sua storia e nella gran parte del mondo ha vissuto (e vive) senza pensioni. Come? Banalmente arrangiandosi: accumulando prima e/o vivendo con pochi soldi dopo (se necessario spostandosi in zone del mondo low-cost, ora anche fiscalmente agevolate). Cosa impossibile solamente a una categoria di persone: i disabili gravi, che pertanto meritano la massima tutela. Secondo, perché un altro modello di trasferimento di risorse tra produzione e rendita può eventualmente sostituire in modo più sostenibile quello attuale, ed è quello a capitalizzazione. Terzo: riscoprendo le reti informali e familiari di solidarietà che hanno funzionato per secoli.


Le grandi differenze rispetto al mondo passato senza pensioni o quasi sono due. La prima è l’aumento della longevità. Questa è la vera sfida ignota. Ma questa dipende dalle risorse che i contribuenti (produttivi o improduttivi) sono disposti a stanziare per l’assistenza sanitaria in un sistema che di base non può che essere solidaristico (anziché stanziarli per la difesa, per la sicurezza, per la giustizia, per l'ambiente, per i disoccupati, per la costruzione di acciaierie “per creare posti di lavoro”, etc.). Non è escluso che il salto quantico della longevità accaduto nell’ultimo secolo possa aver raggiunto un massimo di lungo periodo a causa della impossibilità di espandere la spesa sanitaria, ma anche per la non-linearità nella relazione tra spesa sanitaria e longevità.


La seconda differenza è il peso delle grandi aziende e delle relative esigenze nel mondo del lavoro. I sistemi a ripartizione o comunque solidaristici hanno concesso per decenni alle aziende la possibilità di liberarsi delle risorse ritenute in eccesso (con notevole spreco di capitale umano: non tutti hanno una alternativa professionale come Gino!). Anche questo non durerà molto. E non so cosa potrà succedere in mancanza di questo “assorbimento esterno”. Un destino – indesiderabile per molti - potrebbe essere la trasformazione già in atto del “posto fisso” in “posto strutturalmente incerto” (però con welfare assicurativo e previdenziale privati forniti di default come parte della retribuzione), in cui fin dall’inizio del rapporto non esiste questa dicotomia rigida tra lavoro dipendente e autonomo. Anche perché non sappiamo come cambieranno i mestieri e l’organizzazione del lavoro con l’automazione, con l’intelligenza artificiale etc. Non sappiamo nemmeno di “quanto” lavoro ci sarà bisogno da qui a 10, 20 o 30 anni (sono ottimista: ancora molto).


In conclusione: noi viviamo in un’epoca e in Paesi in cui la pensione è considerata un “diritto”.Vorrei evidenziare che questo può essere considerato un progresso, ma anche un caso. Nell’esercito dell’antica Roma, i legionari avevano diritto a una generosa liquidazione a fine carriera, i soldati ausiliari cittadini delle Province no (pur ricevendo paga e mantenimento fintantochè erano in servizio) (1). Quella che a noi appare una inaccettabile ingiustizia era per la “razionalità” dell’epoca l’unico modo per garantire la sostenibilità dell’onere finanziario per l’erario militare. I Romani avevano scambiato l’ingiustizia con l’antifragilità del sistema. Come dice Rosalyn (Jennifer Lawrence) a Sydney (Amy Adams) in una memorabile scena di American Hustle, “qualche volta nella vita tutto quello che hai davanti sono scelte fottutamente velenose”. 

(1) Edward Luttwak, La grande strategia dell'impero romano, BUR 1986 pag. 58.