Io non mi sento italiano
A quasi vent'anni di distanza il capolavoro postumo di Giorgio Gaber "Io non mi sento italiano" pare quasi un vaticinio, l'acutissima intuizione della decadenza culturale e sociale del nostro paese.
Io non mi sento italiano
Retrospettiva del capolavoro postumo di Giorgio Gaber a quasi vent'anni di distanza
È il 2003, gennaio. Gaber se n’era andato tre settimane prima, il giorno di Capodanno, sopraffatto dal brutto male con cui combatteva con alterne fortune da un bel po’ di anni. Esce Io non mi sento italiano, attesissimo e invocato disco postumo, completato appena due mesi prima. Qualcuno ipotizza di trovare tra i suoi solchi una sorta di necrologio, di percepire, magari sobriamente, l’alone tetro della morte. La morte del suo coautore naturalmente (il lavoro è scritto a quattro mani col fido Sandro Luporini), che era ben conscio di non avere più molto tempo a disposizione. Invece no, nulla di tutto questo: né epitaffio, né testamento. Io non mi sento italiano è un’elegia di toccante e raggelante attualità, premio Tenco come miglior album dell’anno, prodotto e arrangiato dal mai troppo compianto Beppe Quirici. Ad ascoltarlo oggi mette i brividi, Giorgio Gaber. Come tutti gli intellettuali e gli acutissimi osservatori del reale, rappresentava un potente anticorpo contro ogni deriva transumana e la manipolazione costante delle coscienze. Oggi di anticorpi ne possediamo sempre meno, non a caso le pandemie si diffondono perniciose nei cuori e nelle menti più che tra le cellule. Gaber ben intuiva già venti e trent’anni fa che i gangli di una società corrotta e autodistruttiva fossero appannaggio dei media e dei loro magheggi al soldo di pochi editori e di un sistema economico marcio. Non può essere casuale, pertanto, l’apertura del disco con la tagliente Il tutto è falso, brano che sembra scritto ieri e che non si perita di dipingere un mondo in cui non è più umanamente possibile riconoscersi.
Il falso è tutto quello che si sente
quello che si dice
il falso è un'illusione che ci piace
il falso è quello che credono tutti
è il racconto mascherato dei fatti
il falso è misterioso
e assai più oscuro
se è mescolato
insieme a un po' di vero
il falso è un trucco
un trucco stupendo
per non farci capire
questo nostro mondo
questo strano mondo
questo assurdo mondo
in cui tutto è falso
il falso è tutto.
Le stesse istanze manipolatorie in realtà Gaber le aveva colte già molto prima, con C’è un’aria (tratta da Io come persona, live della stagione teatrale 1993-1994) e non a caso qui ripresa, in versione da studio, con un vestito meno arioso e più moderno.
Lasciate almeno l'ignoranza
che è molto meglio della vostra idea di conoscenza
che quasi fatalmente chi ama troppo l'informazione
oltre a non sapere niente è anche più coglione.
Negli ultimi anni della vita, per citare lo stesso Gaber, in quell’ipotetico Dialogo tra un impegnato e un non so “ha vinto il non so”. Hanno vinto cioè i dubbi dell’essere, dell’appartenenza, della difficoltà a trovare una formula interpretativa del reale da sposare e in cui riconoscersi. E tale consapevolezza finiva inevitabilmente per riverberarsi sul futuro dei figli, delle nostre discendenze, sul mondo che gli si sarebbe parato innanzi. Per questo nella commovente Non insegnate ai bambini (che a Milano accompagnò il funerale) l’invito è a tenere i piccoli lontani dalla nostra cultura.
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