Giuseppe Andò

Founder Starter

(Micro) Manuale del Coaching di Transizione

2020-12-16 08:04:22

Una tipologia di business coaching che è tanto importante, quanto non adeguatamente esplorata dalla dottrina e dalle maggiori scuole di pratica.

C’è una tipologia di business coaching che è tanto importante, quanto non adeguatamente esplorata dalla dottrina e dalle maggiori scuole di pratica: il coaching di transizione. L’effetto che le promozioni provocano in alcuni leader, dopo l’iniziale euforia, è un senso di scoraggiante inadeguatezza alle sfide che dovranno affrontare. 

In questi casi, il coaching è un potente supporto, cui, però, pochi specialisti si sono dedicati per progettare una metodologia specifica. Il coaching di transizione è quasi sempre una risposta reattiva, attivata con ritardo e circoscritta ad un periodo troppo breve. Cosa dovrebbe considerare un programma adeguato di coaching di transizione?

  1. Corretto matching tra coach e coahee;
  2. Definizione degli obiettivi, che comprendano quelli dell’organizzazione;
  3. Scelta di un luogo per le sessioni di coaching che sia lontano dall’ufficio;
  4. Inclusione certa di attività di riflessione e sperimentazione attiva;
  5. Utilizzo di sistemi di valutazione che coinvolgano il line manager, i mentor e il team del leader.

Il ritmo rapido e incessante dei cambiamenti in azienda pretende che i leader siano sempre più veloci ad adattarsi a nuovi ruoli e a responsabilità crescenti. Uno studio condotto da Watkins nel 2009 ha mostrato che l'87% dei responsabili HR considera le transizioni di carriera come l'evento più impegnativo nella carriera di un manager. Allo stesso tempo, le organizzazioni vivono la pressione di sviluppare proposte di valore per mantenere i leader di talento. Quindi, il coaching di transizione non può essere più solo un’opzione, ma dev’essere considerata parte integrante della strategia di crescita del management. Le domande da porsi sono:

  1. Come si dovrebbe progettare un percorso di coaching che sia specificatamente pensato per sostenere la carriera dei leader?
  2. Quando dovrebbe iniziare un percorso di coaching di transizione?
  3. Quali tematiche deve includere questo tipo di coaching?

Partiamo dai fondamentali. Il modello di crescita del leader più noto è quello illustrato da Charan (insieme a Stephen Drotter e James Noel) nel 2011 nel libro “Leadership Pipeline”. Il libro descrive i diversi livelli attraverso i quali passa la carriera del leader e le relative specifiche competenze:

  1. Managing self (gestire se stesso);
  2. Managing other (gestire altri);
  3. Managing managers (gestire manager);
  4. Functional managing (gestire funzioni)
  5. Business managing (gestire Business Unit)
  6. Group manager (gestire gruppi di BU o divisioni)
  7. Enterprise manager (gestire l’intera azienda)

Ovviamente, la ripartizione di Charan riflette una realtà aziendale complessa, ma la scansione scalare resta comunque valida. Ogni tappa richiede ai leader di lasciare certi modelli di pensiero e di comportamento, per impararne di nuovi. Il coaching di transizione inizia ad essere importante già dal II° livello della pipeline, ma dal IV° al VII° è inimmaginabile che un leader non abbia avuto un supporto di coaching adeguato. Le sfide da affrontare sono enormi e trascurarne gli effetti significa porre sia il soggetto, sia l’azienda in grave difficoltà. Ma quali sono queste sfide?

  • Sviluppare nuovi modelli di pensiero e comportamento;
  • Sviluppare competenze interpersonali e sociali avanzate;
  • Passare da una modalità di lavoro operativa ad una strategica;
  • Dominare la paura, l'ansia e l’insicurezza;
  • Conservare la propria identità nella fase di crescita;
  • Vincere il senso di vulnerabilità rispetto ai nuovi scenari nei quali si opera;
  • Ottenere il buy-in dal nuovo team
  • Avere perseveranza nel completare i propri compiti, senza preoccuparsi del fallimento (follow-through).

Senza un appropriato intervento professionale di coaching, queste sfide possono essere letali per il progetto di crescita, e allora la sconfitta è duplice; da un lato il soggetto si brucia, attestandosi (anche psicologicamente) al livello raggiunto e disperando di poterlo superare. Dall’altro, l’azienda registra un fallimento in termini di talent management, con effetti devastanti sulla fiducia degli altri talenti aziendali.

Ma, non basta intraprendere un percorso di coaching di transizione, è il “quando” a determinare il successo dello stesso. Quasi sempre, il percorso si decide di iniziarlo quando il leader ha già mostrato segni di angoscia nel nuovo ruolo, lo si intraprende a “scopo terapeutico” e quasi mai in modo preventivo. Altre volte è un coaching “riparatore” (come certi matrimoni di una volta…), che sottintende e insinua l’idea che il neo leader sia, allo stato, inadeguato al nuovo ruolo. Ne consegue, che si programmino interventi inferiori ai 6 mesi, assicurandosi così il fallimento dell’iniziativa e lo spreco di budget prezioso. L’attività di coaching si deve iniziare prima della promozione, è la componente essenziale del viatico di cui il leader deve dotarsi, prima della sua nuova avventura. Qualcuno ritiene che sia opportuno aspettare che il leader abbia iniziato ad operare nel suo nuovo ruolo, per capire quali siano i suoi punti di debolezza, ottimizzando, così, il percorso di coaching.  Altri sostengono che attivare il percorso di coaching prima dell’entrata in ruolo sia un errore “politico”, in quanto preannuncia l’imminente promozione (non ancora decisa in via definitiva), vincolando, così, l’azienda e determinando scontenti e possibili tensioni. La prima obiezione è sbagliata nel merito stesso del concetto di coaching, la seconda, invece, pone problematiche che meriterebbero un approfondimento che qui non possiamo sviluppare. A mio parere, il coaching dovrebbe iniziare non appena si diffonde la notizia dell’imminente promozione, che, come sappiamo, quasi sempre è nota ben prima dell’announcement.

Quanto deve durare il percorso?

Le metodologie più diffuse oscillano tra le 6 e le 10 sessioni, spalmate nel corso di 12 mesi. Altri prolungano fino a 3 anni il percorso, con un numero di sessioni indefinito. Per parte mia, consiglio un percorso di 18 mesi (ben oltre lo standard di 12 mesi di un normale percorso di executive coaching), con una frequenza di una sessione settimanale per i primi 2 mesi, di due sessioni mensili per i successivi due mesi e di una sessione mensile per i restanti 14 mesi. Inutile dire che è rimesso alla deontologia del coach capire se e in che misura sia opportuno utilizzare tutti i 18 mesi, prima che l’attività di coaching si trasformi in altro, per esempio, in sostegno psicologico o mentoring, tradendo il proprio mandato professionale. È anche possibile che i 18 mesi risultino insufficienti, in quel caso è fondamentale che il coach si studi i feedback ricevuti dal coachee per le opportune riflessioni e le eventuali decisioni, anche scomode, da prendere.

La selezione del coach

Non sempre è data l’opportunità al coachee di scegliersi il coach, e questo è male. Molte aziende affidano ad una organizzazione l’incarico dell’attività di coaching e queste propongono un coach che, nel migliore dei casi e per puro amore del formalismo, s’incontra in via preliminare con il coachee, che non ha altra opzione che prendere atto che sarà con quella signora o con quel signore che dovrà lavorare per i prossimi mesi. Un autentico processo preliminare di Chemistry Sessions con almeno 3 coach, provenienti da 3 differenti organizzazioni o, comunque, con approcci empatici e metodologici alternativi è evento raro. In ogni caso, se si è deciso di affidare ad una sola organizzazione l’incarico, per lo meno che il coachee abbia la possibilità di optare liberamente tra due coach.

La logistica

Questo è un tema tanto trascurato nella pratica, quanto determinante. Nessun coachee ama svolgere le sessioni presso la sede di lavoro. Di contro, le aziende tendono a far sì che queste abbiano luogo presso i loro uffici, magari in una sala riunioni. Ricordo di un coachee che mi chiedeva di fare le sessioni all’ora di pranzo, per svolgerle in un ristorante o in un bar davanti al panino. Credo che la scelta migliore sia quella di svolgere le sessioni presso lo studio del coach o, comunque, in un luogo “altro” rispetto a quello di lavoro. Se la sessione diventa un “di cui” della giornata lavorativa, le dinamiche mentali del coachee rimangono vincolate ai processi quotidiani routinari del suo lavoro. Non è più un misurarsi con se stessi, ma con le aspettative di chi giudica e valuta tutte le altre performance. Detto questo, se non esistono alternative, sarà compito del coach garantire la “sicurezza” del luogo e di ciò che avviene nello stesso, affinché il coachee senta di essere in un contesto “altro” rispetto a quello della sua quotidianità. Nell’ipotesi che il coachee possa e voglia scegliere, dovrà essere rimesso a lui/lei la piena autonomia se lavorare on-site o off-site.

Gestione del processo di coaching di transizione

  1. Il goal setting, come sempre, è la fase chiave. Definire gli obiettivi e metterli fisicamente per iscritto, si conferma essere una pratica imprescindibile. La presenza di un oggetto fisico (un foglio, un quaderno, ecc.), che riporti gli obiettivi, scritti direttamente dal coachee, mantiene ancora il suo significato di “compromissione formale”, vincolante di fronte a se stessi e agli altri, coach compreso. Essendo gli obiettivi del coachee il riflesso “personalizzato” degli obiettivi dell’organizzazione, il coinvolgimento degli stakeholder nella realizzazione degli obiettivi del coachee costituisce “l’atto solenne” d’impegno condiviso per realizzarli.
  2. Altro passaggio chiave è raccomandare al coachee di prendere appunti durante la sessione e stendere una sintesi della stessa, da condividere con il coach. Questo permetterà al coach di comprendere quali passaggi della sessione siano risultati fondamentali per il coachee. Saper prendere appunti, per qualcuno, può risultare un’attività ostica. Nel caso, si può utilizzare il Cornell method. La raccolta di tutte le sintesi costituirà una sorta di manualetto per il coachee da utilizzare alla bisogna nel suo nuovo ruolo.
  3. Terzo elemento fondamentale di gestione del processo di coaching di transizione è la sperimentazione attiva. Nulla di quel che si è detto sin ora avrebbe senso in assenza di questa componente. La metodologia è quella classica di Kolb:
    1. Esperienza Concreta
    2. Osservazione Riflessiva
    3. Concettualizzazione Astratta
    4. Sperimentazione Attiva
  4. Quarto pilastro è la riflessione. Ovviamente, non ci riferiamo (solo) a quella già presente nel ciclo di Kolb. Il tema merita un libro, non un articolo, quindi cercherò di schematizzare il tutto per evitare dispersioni. Quali sono le “azioni riflessive” più spesso sollecitate nella pratica diffusa?Ricerca di una progressiva chiarezza di pensiero;
    1. Individuazione di soluzioni alternative;
    2. Liberazione dal sentimento di giudizio (proprio e degli altri);
    3. Creazione consapevole di pensieri positivi.

Normalmente, ci si muove nella direzione di attivare nel coachee la consapevolezza della necessità di cambiare, incoraggiandolo/la ad esercitarsi e a sperimentare diversi comportamenti, per vedere cosa funziona. Poi, durante la sessione, riflettere su ciò che ha funzionato o non ha funzionato, identificando le possibili motivazioni. L’esperienza dimostra che nel coaching di transizione la condivisione con gli stakeholder di alcuni passaggi di questa fase, responsabilizza il coachee non solo verso se stesso, ma anche verso il suo team e il suo line manager.

Come sottolinea molto bene R. Freeman in un articolo del 2011 (Values, Authenticity, and Responsible Leadership), i leader, quando assumono una nuova posizione, hanno spesso modelli mentali incompleti. Al sentimento di angoscia si alterna una sottovalutazione del nuovo incarico, portando il leader a concentrarsi in modo selettivo sui problemi che lo/la fanno sentire a proprio agio. Quindi, il ruolo del coach è determinante per aiutare il leader a superare il senso di inadeguatezza, ma, ad un tempo, a prevenire che si instauri il processo inverso di sottovalutazione della nuova sfida. Questo è lo scopo centrale del processo di coaching di transizione: creare nel coachee il senso e la consapevolezza dei propri limiti, incoraggiandolo/la a superarli attraverso la riflessione e la sperimentazione attiva.

I leader sono tipicamente ambiziosi, intelligenti, energici e inquieti, il che implica che il coach debba avere le competenze per affrontare una vasta gamma di comportamenti e atteggiamenti, che, se non gestiti, portano al sicuro fallimento del coaching. Ritengo che il coaching di transizione debba essere considerato come una vera e propria disciplina specialistica, tanto più che spesso è un’attività che si svolge parallelamente a quella dei mentor interni, che devono essere coinvolti in quanto stakeholder del coachee. Trovare il corretto equilibrio e conoscere i limiti d’azione reciproci, richiede grande preparazione e una conoscenza profonda delle dinamiche aziendali.  


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