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Leader autonomo o eteronomo?
Da qualche lustro, l’argomento più démodée, quando si parla di leadership, è quello relativo al ruolo della logica razionale nel processo decisionale.
Oggi siamo affascinati dall’idea che un fascio di emozioni attraversi le persone e che solo questo complesso di sensazioni, più o meno strutturate, debba ispirare i leader nella gestione dei loro collaboratori.
C’è una sorta di “mano invisibile” provvidenziale che, come credeva Adam Smith per l’economia, regge e regola per il meglio i comportamenti del leader. Gli stati emotivi personali, e per questo assolutamente soggettivi, diventano una sorta di regolo per l’identificazione e la corretta gestione degli stati emotivi degli altri. Tutto questo senza coinvolgere la razionalità, ma semplicemente attraverso una misteriosa intelligenza emozionale (l’ossimoro è di un’evidenza imbarazzante) di cui non si capiscono i confini rispetto alla cara e vecchia intelligenza “di una volta”. Un leader conseguirebbe i propri obiettivi, semplicemente mettendo in atto comportamenti intuitivi, anzi qualcuno parla di comportamenti istintivi. William James, già nel 1887 in “What is an istinct”dà del concetto di istinto una definizione chiarissima: “è la capacità di agire in modo da produrre determinati fini ma senza la precognizione di quei fini e senza avere appreso che cosa occorre fare”. In pratica, si ottengono dei risultati inaspettatamente positivi, ma che non rispondono a nessun criterio logico e, quindi, ripetibile. Insomma, si tratta di pura fortuna. In realtà James si riferisce agli istinti più semplici, mentre per quelli più complessi James fa riferimento a sequenze coordinate frutto di una competizione tra i singoli istinti di base. Ma il punto non cambia. Ciò che rende un soggetto, quindi anche un leader, realmente responsabile delle proprie scelte è la consapevole ed autonoma elaborazione di idee e concetti che alimentino un convincimento e, quindi, un conseguente comportamento.
Non che l’elemento emotivo non sia coinvolto, semplicemente non può essere la fase dell’elaborazione più complessa. Un leader deve essere autonomo (dal greco autonomos (αὐτόνομος), formato da autos (αὐτός) cioè "stesso" e dal verbo nemein (νέμειν) ossia "governare"), quindi deve darsi regole proprie che siano immuni da condizionamenti puramente emotivi stimolati dall'esterno. Le emozioni sono il complesso di sensazioni che trascinano il soggetto, rendendolo non autonomo, bensì eteronomo. Intendiamoci, le emozioni sono il patrimonio irrinunciabile della nostra umanità e ci aiutano a comunicare e a “sentire” l’universo che ci circonda, ma non a capirlo. La meraviglia che ci attraversa nel guardare un cielo stellato (tema kantiano) è l’espressione della nostra emotività, ma lo studio e la conoscenza dello stesso cielo sono possibili solo con un metodo razionale. Un leader non dev’essere un calcolatore e anche se volesse non potrebbe esserlo.
Come ha giustamente notato Searle: “I programmi per calcolatori, non riescono infatti a catturare la specificità dei fenomeni mentali, la loro intrinseca intenzionalità, cioè il loro essere provvisti di una semantica, il loro riferirsi a contenuti di significato e a entità extramentali, caratteristiche che nessun programma, basato per definizione su manipolazioni puramente sintattiche e formali di simboli e stringhe di simboli, è in grado di replicare." La complessità della natura umana non è nemmeno in discussione, ciò su cui bisogna porre l’attenzione è l’importanza di formare una generazione di leader che, nella misura in cui siano consapevoli e razionali, si sentano responsabili delle loro azioni e modifichino i loro comportamenti in ossequio ad un complesso di motivazioni che si fondino su valide argomentazioni.