Giovanni Floris

secondo racconto

2019-08-18 06:48:42

" il VENTUNESIMO DITO"

Sentivo, dalla parte opposta del muro che divideva la mia camera dalla camera dei miei genitori, mio padre ansimare, mia madre mugolare, era tutto un crescendo fino ad un gemito soffocato che emettevano muto per non farmi svegliare... 

Io in realtà ero sempre sveglio..., loro non immaginavano o se lo immaginavano, io venivo dopo le loro faccende. Mio padre scopava mia madre, lo faceva tutte le notti, a volte faceva la doppietta il GIOVEDI.

Io questa cosa non la comprendevo, in nessun senso, era una cosa da non spiegare ai piccoli, era una cosa che provocava buchi nella mente, i buchi buio.

So che sudavo anche io con loro ed ero in uno stato di agitazione al limite della sopportazione, ho addirittura pensato che si potessero fare del male... 

Volevo sapere. La curiosità era più forte della preoccupazione; di solito la curiosità viene prima della preoccupazione, tuttavia la preoccupazione mi assaliva e spingeva la curiosità, cercavo i perché, continuavo a grondare sudore, a risvegliarmi tutto appiccicato fra le lenzuola fradice senza spiegazione alcuna. 

Questa cosa agitava la mia mente ed il mio corpo..., ai bambini è vietato conoscere le dinamiche che agitano contemporaneamente la mente ed il corpo, è la regola della “sana educazione”.

Quell’agitazione infantile... era qualcosa di insolito, di diverso..., di più, molto di più del più; spesso si trasformava in un attimo di tormento, prendeva mente e corpo e mi spiegava, naturalmente, quello che non si deve insegnare ai bambini.

Un pensiero fisso mi disturbava, mi ammaliava e mi provocava stimoli, senza tempo per le pause di riflessione, istintivamente con il pensiero ero sempre lì, in diretta durante la notte, con il ricordo aggrappato a quei rumori che non riuscivo a rimuovere di giorno..., tutto mi conduceva lì: il volto di mia madre, le mani di mio padre, il tramezzo, le differenze, se mi soffermavo con più attenzione sulla mia preoccupazione anche di giorno sudavo...

Come potevo raggiungere la soluzione? Avevo persino il desiderio sopito di non volerla raggiungere mai, di restare sospeso tra le cose di cui mi parlavano e quelle che ai bambini non bisogna dire mai..., comunque sudavo.

Come fare? Era come avere una sensazione che poi ho scoperto da grande: avere un debito da pagare e non possedere i soldi per pagarlo, tutto aggravato dal debitore alla porta.. 

In un sogno breve che feci, vidi addirittura il mio debitore armato di un coltello, tutto mi sembrò più vero che mai, il coltello era un coltello che mia madre usava di sovente in cucina, la faccia del debitore era quella di mio padre..., al risveglio perdevo sangue dal naso.

Decisi di spiarli ed iniziai il progetto, il primo dei tanti che mi hanno condotto alla scoperta del mio QUI. L’avrei fatto di notte, quando tutto accadeva, con la complicità del buio? O di giorno, rimanendo a casa da solo? Cercavo chissà quali tracce di quella lotta che ascoltavo attraverso il tramezzo.

Raramente  capitava che mi lasciassero in casa da solo di giorno, tuttavia con la luce avrei potuto frugare nella loro camera, alla ricerca di qualche dettaglio, di qualche particolare che mi indirizzasse verso “logiche spiegazioni”; di notte sarebbe stato impossibile, la camera era occupata, ed io non avrei posseduto la lucidità necessaria all’impresa.

Loro, intanto, mentre io tentavo di sciogliere questo nodo, perseveravano. I giorni e le notti trascorrevano, era anche cambiato il mese, la luna era piena, decisi di lasciare la tenda aperta perché facesse luce dentro la mia stanza e non fossi attanagliato dal nemico buio. In assenza della gialla armonia, quando la luna scompariva dallo specchio della finestra era il  momento peggiore fino all’alba...,  loro continuavano  a scopare tutte le notti per diverse notti di seguito, mentre io sudavo e non riuscivo a decidere quando mettere in pratica la teoria del mio progetto: di giorno o di notte? 

Non immaginavo cosa davvero stessero facendo, pensavo addirittura che si potessero ammalare, che si potessero fare del male, che avessero chissà quale morbo al punto di respirare così. Pensai, in un mattino senza luna, di trovarli morti.

A volte di giorno a tavola, li fissavo, guardavo le loro bocche, ascoltavo i loro respiri paralleli..., nulla da paragonare a ciò che udivo di notte, tuttavia dentro la testa udivo contemporaneamente quei rumori, quegli strani rantoli, quello che proveniva dall’altra parte del muro, di notte.

Fissavo i loro occhi, tanto che mio padre più volte mi riprese dicendo: “Cos’hai da guardarmi così?”. Io in silenzio ABÁAssavo gli occhi, lui mi appariva, in quel momento, come il debitore armato di coltello che bussava alla mia porta.

Iniziai ad odiare i muri, le differenze, il perché dei muri…compresi che l’uomo erige muri per separare, e sudavo..., sia il muro, sia i loro rantoli mi provocavano malessere, una sorta di malessere, comunque sopraffino.

Un giorno... GIOVEDI, come avveniva puntualmente, vennero a trovarci dei parenti, la solita, visita parenti... Io quando qualcuno arrivava, rimanevo un quarto d’ora spaccato dell’orologio a pendola posto in salotto, al centro della loro attenzione..., tutti si complimentavano per come crescevo e apostrofavano sul come ero bello, su quanto ero intelligente, per come parlavo bene , volevano a tutti i costi che recitassi a memoria l’ultima filastrocca che mi era stata insegnata (iniettata). Era tutta opera di circostanza.

Nessuno ha mai visto il colore dei miei occhi..., succede ancora raramente di incontrare sguardi..., ci si vede con tanti e basta, raramente ci si osserva e ci si guarda negli occhi.    All’improvviso, mi è sempre successo fin da piccolo,   fin dalla prima volta che mi è davvero accaduto, paragonandolo alla lampada di Aladino, vedevo aureole di mosche tutto intorno ai miei parenti, ai miei genitori, ne ascoltavo il ronzio che altro non era che la trasformazione fonica delle loro parole.

Con lentezza improvvisa, genitori e parenti si staccavano da me per dirottare i discorsi, io venivo completamente tagliato fuori..., era come un togliermi dal cazzo, una delle cose che non ti insegnano da bambino, ma di quelle che fai presto a comprendere. I  loro discorsi, le loro parole..., le parole delle visite parenti... erano una sorta di annunciazione che, ben presto, di me non ci sarebbe stata più alcuna traccia, era così che di lì a poco,  mi sarei trovato sul pavimento a guardarli con il naso all’insù  a testa bassa, deluso, a farmi i cazzi miei..., avvolto dai caroselli che producevano le loro mosche. Spesso decidevo di rompere qualche cosa che mi veniva perfino proibito di toccare nella quotidianità. Ecco, l’acerbo manifestarsi della rivolta!

Quello fu il giorno della grande ispirazione. Il fantasma del destino si presentò e con lui la fata fortuna..., sgattaiolai via in silenzio da quella disattenzione che inevitabilmente arriva a colpire i genitori apparentemente sempre vigili ed “eterni padroni” dei propri figli, per proteggerli dicono, in realtà si tratta di una falsa egoistica performance, poi, appena l’interesse si sposta, di te non avvertono nemmeno l’ombra.

Tanto loro erano avvolti dalle mosche che non prestavano più attenzione a me, sapevo anche che potevo incorrere in una pausa del loro blaterare e che mi avrebbero potuto immediatamente richiamare: lo fanno..., si ravvedono all’improvviso, alla fine dei cazzi loro, e per te scatta inesorabile la fregatura e successivamente la punizione, perché sei stato pizzicato a fare quello che ti pare e che a loro non va mai bene.

La curiosità era smisurata, più cara della paura, ma sentivo di poter pagare il prezzo di entrambe, comunque sudavo e avevo raggiunto uno stato di trans, lo stesso che mi avviluppava la notte. Se non avessi agito per mano del fantasma destino e della fata fortuna, venuti in mio soccorso, mai avrei capito cosa capitava dietro a quel muro con cronometrica puntualità. In quell’istante mi ritrovai comunque bagnato nella fronte, nelle mani, il naso mi colava, teso come accadeva di notte quando loro scopavano e io non capivo, immaginando chissà cos’altro. Tutto scattò come un avvenimento liquido, la fata fortuna mi tirò per un braccio, il fantasma destino mi spingeva da dietro, il ronzio delle mosche era infernale, parenti e genitori bevevano vermut e spandevano briciole dei biscotti della nonna DORIA  sul pavimento di graniglia sale e pepe. Oltre me, solo le mosche vedevano le briciole sulla graniglia, loro le mangiavano. Negli anni cinquanta le case appena borghesi avevano pavimenti di graniglia sale e pepe, composti da mattonelle di cemento 20x20, accostate una all’altra, l’effetto finale era quello della nobile graniglia delle case patrizie, quella spalmata a mano, quella usata anche negli androni delle sacrestie, delle chiese importanti…, dei DUOMI.

Come sapevo benissimo, avendolo già collaudato in altre occasioni, seppur mosso da altre circostanze anch’esse traboccanti di curiosità, aprii la porta della loro camera, porta sempre rigorosamente chiusa a chiave dall’esterno a significare non la mancanza di fiducia per carità, ma l’opportunità di preservarmi da eventuali pericoli in cui sarei incorso varcandone l’uscio... “FORSE”... Questa era la spiegazione che mi hanno sempre dato mio padre, io ho sempre immaginato invece una grande stanza piena di parole sordo-mute, quelle che non si insegnano ai bambini, quelle che poi ti spiegano tanti SE.

Non avevo molto tempo a disposizione, il fantasma mi spingeva verso il letto, la fata mi indicò il comodino, dovevo fare in fretta, ero certo comunque di voler raggiungere l’obiettivo a qualsiasi costo, a qualsiasi rischio. Come la maggior parte dei comodini delle camere matrimoniali degli anni cinquanta, questo era diviso in una anta porta pitale, sagomata sulla parte inferiore, ed un vano a giorno che spesso divideva il piano superiore dal minuscolo cassetto inserito.

Camere che prima, ma anche adesso, vengono acquistate in occasione del matrimonio, le famose “camere buone”, impiallacciate in noce, composte di due comodini, un letto a due piazze con testiera e pediera, il comò, una toletta, un armadio e due poltroncine... a cui, con il tempo, si aggiungeva l’uomomorto, se non lo dava in omaggio subito il mobiliere ABÁA

Tutto era illuminato, di solito, da un lampadario rigorosamente progettato a due accensioni, posto al centro di un soffitto, nel centro del quale, a sua volta, veniva posto un rosone in gesso per eccesso di decorazione (finta ricchezza sfrenata, ma che faceva assomigliare al modello).

Le due accensioni servivano per il risparmio di corrente, quando si doveva mostrare la camera... dodici lampade, per uso interno invece sei, mio padre dal lunedì al lunedì, eccetto il giovedì, certo che non ci sarebbero stati visitatori in casa, svitava addirittura cinque lampadine e accendeva il comando a sei in modo che facesse luce una sola lampada, tanto era povero, ma altrettanto fiero di voler somigliare al modello, se chiedevo spiegazioni lui diceva:”E’ sufficiente e va bene così… basta”.

Bé, da non crederci, in quel momento udii fortissimo il ronzio delle mosche provenire dal salotto, molto più alto di come l’avevo lasciato, sebbene mi fossi ormai spostato di almeno sei metri dalla zona dell’oratorio:  si trattava in realtà di un formicolio, quello che ti attanaglia, quello prodotto dall’insicurezza mescolata alla paura inzuppata nella curiosità.

La fata mi sussurrò: “Lì... apri... apri veloce! Il cassetto..., apri, fai in fretta! Dai, fallo come si fa per eseguire una rapina, quello è il caveau della tua banca, lì c’è quello che stai cercando”. La fata fortuna non omette concetti, dice tutto ai piccoli come ai grandi, le fate sono sincere, acqua e sapone.

Avevo archiviato la fretta, ma la sentivo alitare sul collo e  fu così che sfilai per metà il cassetto dalle guide del comodino. Il mio sguardo ispettore frugava come la mano dentro il sacchetto dei numeri della tombola quando da piccolo ti permettono per la prima volta di giocare con i grandi, come da grande dentro le mutande di una sconosciuta. Nel cassetto trovai l’ordine di mia madre, trovai la colpa del padre..., trovai, come succede quando cerchi, di trovare sempre quello che mai ti aspettavi...  Un panno di tessuto di lino, usato e ripiegato con cura e dedizione che, per l’assurdo contenuto, subito mi diede l’impressione di non necessitare tanta premura, oggi a pensare ad una cosa simile è persino difficile darsi delle spiegazioni.

Spiegazioni che tuttavia poi sono arrivate. Quelle che cercavo..., quelle che oggi ho, dopo quattordici anni dedicati a mio padre in alzheimer.

Tutte le spiegazioni che sembrano impossibili da credere..., il fantasma del destino mi ha confermato tutto, la fata fortuna le combinazioni.

Racchiuso dentro al panno di lino, piegato con cura sapiente, c’era quello che all’epoca mi sembrò una protezione per chi si fa male ad un dito, un cappuccio di gomma (lattice), non ne ero sicuro fino in fondo perché era troppo stropicciato ed incollato al panno “tutto faceva grinze”, grinze che mia madre non aveva stirato, gli riconobbi forma simile a quella del  copridito; mio padre una volta lo aveva portato per una settimana al dito medio che si era ferito aggiustando una bicicletta. 

Un odore acre proveniva da quello strano involucro dall’aspetto non casuale, riconfezionato sicuramente con fretta, che a me somigliava a cosa mai vista prima, nemmeno di nascosto, nemmeno di quelle da non far vedere ai bambini e che io puntualmente scoprivo. Sul panno bianco macchie gialle di forma circolare, con alone più giallo ancora..., sembrava colla che fino a  quell’età non avevo mai usato nemmeno di nascosto. Cosa ci faceva e soprattutto cosa c’entrava un copridito di gomma con la colla, cosa c’entrava tanto più con i rantoli della notte che provenivano dall’altra parte del muro...

Alzai gli occhi, per un attimo guardai il muro, guardai la fata, guardai il fantasma, sentii il ronzio delle mosche ABA’Assarsi di volume..., una voce, quella di mio padre... dire: “Dov’è GIANNETTO?”

Groppo alla gola, il groppo del pizzicato... Richiusi con la sapienza dello scassinatore di banche al suono della sirena di madama. Tutto fatto con prepotenza... La fata fortuna mi nascose sotto il letto..., il fantasma andò a prendere mia madre per la mano e la condusse nella camera dove io ero nascosto.

“GIANNI? GIANNINO? GIANNETTO? Lo sai che non devi allontanarti, tuo padre si arrabbia se ti trova qui... GIANNETTO? Dai esci fuori, non fare arrabbiare anche me..., dove ti sei nascosto? Qui? No...! Vediamo... allora qua? Nemmeno..

Esci dai..

Ora lo so!

Sei sotto al letto...”

Già... ero sotto al letto, mi sentii prigioniero, con il pitale come compagno di cella, ero recidivo, pensai: “Madama conosce le vie di fuga dei recidivi anche quando le cambiano”. Chissà poi perché negli anni cinquanta facevano i comodini con il vano portapitale e  tutti si ostinavano a nasconderlo sotto al letto...

Uscii con il sorriso di chi sa perdere l’azzurro della luce rassicurante, la ritrovai negli occhi di mia madre, lei non è mai stata una “donna poliziotto”.

Incrociò con lo sguardo il mio azzurro, mi tese la mano e disse: “Dai vieni di là, quelli se ne stanno andando”... Il groppo mi aveva fatto dimenticare perfino il motivo per cui ero finito sotto al letto con il pitale in faccia... La seguii. 

Non appena tornato in salotto vidi che, nel frattempo, si era cosparso di mosche sfamate di molliche…, svenute dalla sazietà, come alla fine delle merende la gente si appisola al sole. Venni immediatamente riconsiderato, io vedevo mosche ovunque, mosche sfinite dal ronzare, qualcuna ancora accennava al volo, simile ad un aliante stordito dall’assenza di vento..., ma le  mancava la linfa per volare, mancava l’unto delle parole che bagnano, scemava, essendo ormai giunti alla fine della visita parenti, le mancavano le domande e le risposte a tamburo battente, i pettegolezzi, i giudizi di quel pomeriggio sudato, le mancava l’essenza per alimentare il rumoroso volo, tutto veniva a spegnersi. Si arrivò a dei preliminari, accenni dei saluti finali che sarebbero, tuttavia, arrivati dopo ancora almeno mezz’ora di: “Allora ci sentiamo”. “Perché non venite voi la prossima volta?”. 

“Salutami la nonna, la zia, Sandro, Anna, Paoletta, Erminia, non dimenticarti di...” e come tocco finale sulla porta : “Quasi... chissà... a proposito...”. 

All’ouverture  del commiato... e senza spiegazioni per nessuno, tantomeno per me  che ritornavo a pensare cosa cazzo ci facesse un copridito, raggrinzito, sporco di una colla sconosciuta e puzzolente, non stirato, avvolto in un panno-lino perfettamente stirato.

I parenti si sollevarono dal salotto. 

Mia madre, come ordinava mio padre, aveva opportunamente scoperto il divano al loro arrivo già dal primo suono del campanello, sapendo, come preannunciato, si trattasse dell’arrivo degli zii, il tutto per lasciare in primo piano la vera tappezzeria da mostrare, sempre immacolata, anziché il telo di tutti i giorni, che mio padre tassativamente diceva di preferire, mentre in realtà era solo una scusa affinché la tappezzeria originale durasse più a lungo.

Lasciando cadere le ultime briciole dai loro abiti, sbattendosi sul petto le mani, come fa il prete all’altare  nel caso del mea-culpa, i parenti iniziarono in processione il cammino verso l’uscita.

Abiti buoni, quelli giusto a punto della visita parenti, gli stessi usati poi alla domenica, la divisa dei rituali, per la messa o la passeggiata in su ed in giù per il corso principale della città, per i mea-culpa, visto che erano sempre a caccia di incontrare qualcuno per dare il via al volo delle mosche. Il così detto “cambio buono”.

Sono tante le cose che non vanno raccontate ai bambini, dicono. Pensando all’abito “buono” mi resi ben presto conto che dietro all’aggettivo buono, nel tempo della carne, si celano sempre aspetti strabilianti, pericolosi, inversi e contrari, sconcertanti, a volte addirittura buffi.

Una di loro rovesciò un bicchierino vuoto di vermut che la fata fortuna prese al volo per mano di mia madre, evitando che cadesse dal tavolo del salotto (finto noce...abete tinto con gamba stile misto..., lo davano in regalo a chi acquistava un arredamento completo), il fantasma sorrise alla fata...dal viso di mio padre. Se si fosse rotto uno di quei bicchieri “buoni” da vermut presumo che quei parenti avrebbero avuta vita corta con mio padre..., le loro visite in casa nostra si sarebbero sicuramente diradate, ma poi la fata sarebbe stata, con il tempo, sicuramente capace di far cambiare idea al destino, se non del tutto almeno in parte. 

Si, mia madre assomigliava alla fata fortuna e mio padre  al fantasma destino. 

Io sperai tanto che il bicchiere si frantumasse in mille pezzi per mille motivi...

La notte che seguì, forse per effetto del vermut che mio padre aveva bevuto, le ansie si elevarono a potenza..., una sorta di ritmo proveniente dalla loro camera mi annullava ogni forma di concentrazione, perfino il mio letto si muoveva ed il tramezzo sembrava una pelle di animale usata per fare un tamburo.

Un ritmo di percussione contro il muro scandiva, separava, dava un tempo a cinque quarti ai loro rantoli..., capii subito che si trattava della testiera del letto che sbatteva contro l’intonaco. 

Odiavo i muri, odiavo le separazioni, odiavo quel ritmo (mi immaginai prossimi i lavori di ristrutturazione della casa), mio padre imponeva un ritmo tribale, violento per foga e per lungaggine, che nemmeno il mugolio finale trasformò in musica. 

Avevo davanti solo un sipario chiuso, non rendendomi conto se desiderare un bis o no, le voci degli attori ricomparvero ed ascoltai nitidamente: 

“ Sei la migliore delle troie”... Udii anche la voce di mia madre che con dolcezza di tulle disse: “Ti amo”...

In un lago di sudore io pensai di salvare mia madre ed immaginai di possedere un coltello molto più grande del suo, quello che avevo visto in sogno quando lui aveva la faccia del debitore; con il coltello pensai di scannarlo come avevo visto fare a mio nonno con il maiale. 

Ero convinto che mio padre le facesse del male, che le producesse dolore, che la umiliasse e la sottomettesse, che lei si raccomandasse..

Mi alzai ed uscii dalla mia camera, avevo il pigiama a righe che somigliava ad un quaderno scritto dimenticato sotto ad un temporale, tanto ero sudato, la porta della loro camera era socchiusa, mio padre accese la luce, l’unica lampadina avvitata delle dodici, che aveva rigorosamente avvitato e svitato in occasione della visita parenti.

Feci un passo indietro, il mio sguardo, miracolosamente, divenne più lungo, guardai attraverso la fessura verticale e vidi il ventunesimo dito.

Il ventunesimo dito di mio padre..., grande più delle dita della mano, enorme rispetto a quelle dei piedi, era più grande del coltello con il quale immaginavo di sgozzarlo. Disarmato catturai tutta l’impotenza che c’era nei paraggi e continuai a guardare con una zoommata  fuoriclasse, con tutte e due le mani armeggiava intorno al grande dito, mentre io nella testa ripetevo: pollice, indice, medio, anulare, mignolo, pollice, indice, medio, anulare, mignolo, pollice, indice, medio, anulare, mignolo... Che nome dare ad un dito grande e sconosciuto? 

Con una mano lo impugnò al punto che ebbi più chiara la differenza di misura dalle altre dita, con l’altra estrasse il cappuccio di lattice pieno di colla gialla, vidi le mani di mia madre prenderlo e riporlo dentro al panno di lino, aprire il cassetto del comodino poi richiuderlo. Non riuscii a vedere il volto di mia madre..., il mistero non fu risolto, perlomeno nella totalità.

Sognai tutta la notte un punto interrogativo che si frantumava in un milione di punti interrogativi..., la voce di tulle di mia madre mi venne in soccorso al mattino... “GIANNETTO? Sveglia devi andare all’asilo”... Mio padre a quell’ora era di solito già uscito, io non immaginavo, finché... fu all’asilo che anche le mie piccole palle iniziarono a riempirsi..., non immaginavo che mio padre uscisse di casa con le palle vuote e che andasse a riempirsele fuori, nel mondo del grande ABÁA, dove volano silenziose solo mosche bianche e rare... per poi, la sera, sfogare i suoi istinti sul tulle.

Ai bambini certe cose non si dicono, spesso sento ancora dire: “Verrà il tempo in cui capirà da solo”, e ho freddo.

Ricordai quando mia nonna, sapientemente, mentre decapitava una anguilla, mi avvertì che sebbene l’animale fosse stato affettato come un salame, avrebbe continuato ad agitare la coda, mi spiegò la differenza fra il salame e l’anguilla, mia nonna era una fata e le fate si sa non omettono concetti, raccontano tutto ai piccoli come ai grandi, le fate sono sincere, sono acqua e sapone.

All’asilo le mie piccole palle iniziarono a riempirsi..., le scuole sono tra i primi luoghi dove incontri i grandi ABÁA e le palle devono necessariamente crescerti. Non avevo coscienza del tempo che mi avevano assegnato, che mi iniettavano, ero alle prime armi, sperimentavo come modellare il mio tempo, tutto avveniva con grande normalità, in strana sincronia, della quale avvertivo l’unto, una alchimia a forma di casa dove entravano difficilmente tanto il fantasma destino, tantomeno la fata fortuna.., anzi loro mi hanno forse casualmente sempre salvato prima di varcare l’uscio.

“ Sei la migliore delle troie”... Udii anche la voce di mia madre che con dolcezza di tulle disse: “Ti amo”...

In un lago di sudore io pensai di salvare mia madre ed immaginai di possedere un coltello molto più grande del suo, quello che avevo visto in sogno quando lui aveva la faccia del debitore; con il coltello pensai di scannarlo come avevo visto fare a mio nonno con il maiale. 

Ero convinto che mio padre le facesse del male, che le producesse dolore, che la umiliasse e la sottomettesse, che lei si raccomandasse..

Mi alzai ed uscii dalla mia camera, avevo il pigiama a righe che somigliava ad un quaderno scritto dimenticato sotto ad un temporale, tanto ero sudato, la porta della loro camera era socchiusa, mio padre accese la luce, l’unica lampadina avvitata delle dodici, che aveva rigorosamente avvitato e svitato in occasione della visita parenti.

Feci un passo indietro, il mio sguardo, miracolosamente, divenne più lungo, guardai attraverso la fessura verticale e vidi il ventunesimo dito.

Il ventunesimo dito di mio padre..., grande più delle dita della mano, enorme rispetto a quelle dei piedi, era più grande del coltello con il quale immaginavo di sgozzarlo. Disarmato catturai tutta l’impotenza che c’era nei paraggi e continuai a guardare con una zoommata  fuoriclasse, con tutte e due le mani armeggiava intorno al grande dito, mentre io nella testa ripetevo: pollice, indice, medio, anulare, mignolo, pollice, indice, medio, anulare, mignolo, pollice, indice, medio, anulare, mignolo... Che nome dare ad un dito grande e sconosciuto? 

Con una mano lo impugnò al punto che ebbi più chiara la differenza di misura dalle altre dita, con l’altra estrasse il cappuccio di lattice pieno di colla gialla, vidi le mani di mia madre prenderlo e riporlo dentro al panno di lino, aprire il cassetto del comodino poi richiuderlo. Non riuscii a vedere il volto di mia madre..., il mistero non fu risolto, perlomeno nella totalità.

Sognai tutta la notte un punto interrogativo che si frantumava in un milione di punti interrogativi..., la voce di tulle di mia madre mi venne in soccorso al mattino... “GIANNETTO? Sveglia devi andare all’asilo”... Mio padre a quell’ora era di solito già uscito, io non immaginavo, finché... fu all’asilo che anche le mie piccole palle iniziarono a riempirsi..., non immaginavo che mio padre uscisse di casa con le palle vuote e che andasse a riempirsele fuori, nel mondo del grande ABÁA, dove volano silenziose solo mosche bianche e rare... per poi, la sera, sfogare i suoi istinti sul tulle.

Ai bambini certe cose non si dicono, spesso sento ancora dire: “Verrà il tempo in cui capirà da solo”, e ho freddo.

Ricordai quando mia nonna, sapientemente, mentre decapitava una anguilla, mi avvertì che sebbene l’animale fosse stato affettato come un salame, avrebbe continuato ad agitare la coda, mi spiegò la differenza fra il salame e l’anguilla, mia nonna era una fata e le fate si sa non omettono concetti, raccontano tutto ai piccoli come ai grandi, le fate sono sincere, sono acqua e sapone.

All’asilo le mie piccole palle iniziarono a riempirsi..., le scuole sono tra i primi luoghi dove incontri i grandi ABÁA e le palle devono necessariamente crescerti. Non avevo coscienza del tempo che mi avevano assegnato, che mi iniettavano, ero alle prime armi, sperimentavo come modellare il mio tempo, tutto avveniva con grande normalità, in strana sincronia, della quale avvertivo l’unto, una alchimia a forma di casa dove entravano difficilmente tanto il fantasma destino, tantomeno la fata fortuna.., anzi loro mi hanno forse casualmente sempre salvato prima di varcare l’uscio.

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