Emanuele Arzà

Top Founder Senior

Emanuele Arzà

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Non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire

2019-06-01 16:57:39

Parliamoci chiaro: non è facile parlare di disabilità quando chi hai di fronte non ti capisce.

Non è questione di comprensione lessicale ma di ottusità culturale.

 Se si ragiona di pancia senza entrare nei panni dell’altro è sempre difficile comprendere le implicazioni che la disabilità comporta nella vita quotidiana, anche quando questa non si vede come la sordità. Proprio noi siamo in condizioni di dirlo: non c’è peggior sordo di chi non vuol capire.


Tante persone, tra cui anche chi mi conosce da anni, non mi capiscono. Ho le protesi, parlo bene (dicono…), lavoro, ho la mia vita. “Di che ti lamenti?”. Non capiscono quando parlo di diritti. Penso sia perché i diritti non sono facili da visualizzare. Diritto all’accessibilità all’informazione? Diritto alla parità? “Ma che è?” Sembrano concetti esagerati detti da uno come me: “ma se hai le protesi, senti. Quindi non hai problemi”. Non capiscono perché mi affanno tanto né tanto meno cosa voglio, sia a livello personale sia quando mi ponevo come Presidente provinciale dell’ENS. O meglio non riescono a visualizzare.


Non è un problema di richieste strane o poste in maniera poco chiara. Secondo me non vivendolo, non hanno proprio idea di cosa parli, perché traspongono i miei problemi sulla loro visione di vita quotidiana. Gli altri sentono, raccolgono informazioni dove vogliono, quindi quando, ad esempio, dico che noi sordi abbiamo diritto di avere l’informazione accessibile, non capiscono.


Dove è “il problema”? È una disabilità che non si vede: così viene da dire di primo acchito. Vero: solo al momento della comunicazione si scopre “il problema” e non si è preparati ad affrontarlo. Se vediamo il cieco, ha il bastone, ha il cane guida, oppure comunque si vede con maggiore facilità. Ma parla, quindi possiamo stabilire una comunicazione, chiedergli di cosa ha bisogno all’occorrenza. Accompagnarlo se necessario. Stessa cosa se vediamo un disabile in carrozzella. Le sue difficoltà sono evidenti. Anche in questo caso, all’occorrenza, possiamo comunicare e porci allo stesso livello.

I sordi no. Ma vi garantisco che non è colpa nostra.

La società sottolinea a tinte forti la disabilità, ne rimarca la sua negatività e, non capendo, ingigantiscono il gap dando fuoco alle polveri dei pregiudizi.Non è la disabilità in sé che non si vede ma sono le sue implicazioni psicologiche, culturali e sociali. Quando dico che i sordi soffrono quotidianamente, tanti strabuzzano gli occhi. “Tu? Soffri? Ma va là! Prendi anche la pensione senza far nulla”. “Ti danno il lavoro, avete le liste protette”. “Comprate macchine nuove con l’IVA al 4%”. Appunto. Si guarda il dito anziché la luna.


Peggio ancora se i miei interlocutori sono famiglie, genitori di sordi. Se dico che essere sordi non va vista come una disgrazia, ma come una condizione naturale, apriti cielo! Come per gli udenti sentire è naturale, così è non sentire per un sordo. L’istinto di sopravvivenza che caratterizza la specie umana fa sì che gli altri sensi intatti sopperiscano alla mancanza di quello “rotto”. Se dico che anche i sordi sentono ma seguendo altre modalità, utilizzando altri sensi, li mando ancora più in confusione o mi prendono per visionario. Non si accetta l’idea di aver messo al mondo un figlio “rotto”, un figlio “diverso” da loro. Posso capire l’impatto emotivo iniziale che in taluni casi sfociano nelle 5 fasi dell’elaborazione del lutto. Ma nemmeno avessero messo al mondo un caprone…


Diceva Raimon Panikkar, celebre studioso di studi interculturali:

“(…)incontrare l’altro significa incontrarsi con quella parte di noi stessi che ci è nascosta. In tutte le lingue neolatine l’altro è l’altera pars, il versante di me stesso che rimane celato. L’altro mi rivela perciò quella parte di me che ancora non conosco pienamente. Aver paura dell’altro significa perciò aver paura di se stesso, non aver ancora trovato il proprio centro, vivere nel timore che l’altro mi dica quello che non vorrei sentire. Così ci chiudiamo e ristagniamo in una sorta di autoinganno”.

Quando si ha a che fare con il mondo della disabilità, volenti o nolenti, bisogna abituarsi a vedere le cose da diverse prospettive. Forse il problema della società, al giorno d’oggi, è proprio questo: mancanza di obiettività ma soprattutto incapacità a considerare punti di vista diversi dal proprio. Credo fermamente che la nostra felicità passi per la piena consapevolezza e l’accettazione di sé stesso per quello che siamo, per le potenzialità che abbiamo, per il valore aggiunto che come risorsa seppur diversamente abile siamo in grado di offrire e non per come gli altri ci vedono o ci chiedono di sembrare o di uniformarsi. Se prima di fare le cose, ci togliessimo i panni di persona “udente” e ci mettessimo per un attimo i panni del “sordo” (ma vale anche per qualunque tipo di diversità) probabilmente verrebbe meglio capito e si sarebbe in grado di dargli una società accessibile.