Delia Di Pasquale

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L’attualità del pensiero di Luigi Pirandello

2019-10-08 08:38:57

“Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza sapere né come né perché né da chi la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti)... CONTINUA A LEGGERE

...la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il gioco non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano, ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno”.


Queste parole, tratte da una lettera autobiografica di Luigi Pirandello costituiscono un documento molto significativo ai fini della comprensione della sua arte e dell’attualità del suo pensiero.

È un’arte che rispecchia la nuda realtà, che acquisisce la tragedia dell’uomo, dopo aver esplorato l’incomunicabilità a livello sociale e dopo aver constatato che la coscienza di sé non basta all’uomo.

Pirandello fa prevalere nei suoi personaggi l’isolamento insulare e la solitudine esistenziale.

Così avviene nel romanzo “L’Esclusa”, così nel romanzo “I vecchi e i giovani”.

Anche quando vi è la polemica contro l’affarismo borghese e la corruzione parlamentare (n.b.: tema attualissimo ai nostri giorni) lo scrittore ritrae il sociale sull’individuale, e la polemica si concentra sull’individuo in quanto questi rispecchia il male di tutti.

Le novelle rappresentano, prima del teatro, un’inchiesta attenta sulla grande commedia che è la vita e ci aiutano a capire lo spirito con cui lo scrittore narra, spinto dal bisogno di attaccare l’ignoranza, le superstizioni dei poveri e le ipocrisie dei borghesi.

Tra le più gioiose, nonostante sia ispirata al tema della morte, vi è “Il giardinetto lassù”. L’autore in questa novella ci rivela il motivo ispiratore della sua arte: il sogno di un mondo in cui l’uomo sappia contemplare la bellezza della natura, amare i suoi simili e condividere con gli altri quei beni materiali e spirituali di cui a ciascuno è dato godere.

Per capire il mondo dei fanciulli, sembra dirci Pirandello, bisogna avere l’animo generoso di Nonno Bauer, il quale, in attesa della morte, si compra al cimitero un piccolo pezzo di terra che trasforma in un giardinetto fiorito.

Quando però viene a sapere che un bambino di sette anni, “vispo e leggiadro”, muore di tifo, lo fa seppellire nel suo giardinetto camposanto, accanto a sé.

Pirandello è molto attratto dal mondo della fanciullezza, un mondo che, secondo lui, bisogna difendere dall’ignoranza, causa principale di molti comportamenti sbagliati.

Così nella novella “La Madonnina” e in “Vita di Luigi Pirandello”, egli stesso rivive una sua esperienza di ragazzo, un’esperienza che lo allontanò dalla Chiesa, anche se sempre rimase vivo in lui il desiderio dell’amore cristiano.

Il parroco, commosso dal suo fervore religioso, durante una piccola lotteria, i cui si sorteggiava una Madonnina di cera, finse di avere sorteggiato il suo nome. Ma egli, che non aveva comprato il biglietto, si sentì ingannato e deluso, e si allontanò per sempre dalle pratiche religiose. 

Senza alcun rancore Pirandello denuncia un’altra pecca sociale: quanto l’adulto, credendo di educare, per una ragione e per l’altra, finisca con il turbare l’animo del bambino, provocandogli ansie e tormenti.

Il bambino va invece rispettato, guidato con tatto, affinché il suo rapporto con la natura o con Dio, se gli vuole dare un’educazione religiosa, sia spontaneo e libero.

L’incomprensione verso i bambini, vuole dimostrarci lo scrittore, è un piccolo aspetto della malvagità dell’uomo verso i suoi simili.

In uno scritto intitolato “La scelta” egli racconta un altro episodio della sua infanzia.

Ogni volta che con il suo istitutore si fermava a guardare i giocattoli, veniva da quello messo in guardia e dissuaso dal comprare. Ma alla fine predominò in lui la gioia di cedere alle illusioni e lo scrittore, nel ricordare ciò, sembra invidiare se stesso bambino.

“Oggi sento che Pinzone … su me esercita un potere veramente tirannico e mi guasta e mi spegne ogni gioia”. 

Da grandi, infatti, bisogna che chiamiamo amore l’amore, morire il morire, insomma bisogna che diamo “fuoco alla paglia”, cioè alle vanità della vita. 

A queste amare conclusioni Pirandello arriva, vedendo la rivoluzione industriale allargarsi e rovesciare i valori che vanno sempre difesi: la maternità, l’infanzia, la dignità umana, la libertà. 

Il simbolo di questa società è Cinci, il quale tornando a casa da scuola, trova la porta chiusa, e, in preda ad una rabbiosa delusione, corre in campagna con il cane, quel cane che “almeno sa che cosa deve fare: seguire il suo padrone”, mentre egli si sente trascurato dalla madre, che deve lavorare.

La sua ribellione irrompe d’un tratto in difesa di una lucertolina, uccisa senza pietà da un contadinetto, ed egli diventa senza volerlo, assassino. 

In questo racconto lo scrittore sembra che ci voglia far sentire il bisogno di comprendere i monelli che gettano i libri contro una porta chiusa, gli alunni poco diligenti, i ragazzi soli, disperatamente soli come Cinci. 

Un’altra vittima della società è la Nenè della novella “Servitù”, cui il padre toglie bruscamente anche l’illusione del gioco, perché non tollera che la figlia, figlia di una nurse, si scelga la parte di serva e riservi alla bambola bionda la parte di signora. 

La violenza, l’ignoranza, l’incomprensione, ci fa osservare Pirandello, rendono i dolori ancora più cupi. 

Anche la lotta sociale, sembra pensare chi scrive, va condotta con dignità, nel rispetto della persona umana. 

La riflessione pirandelliana si colora spesso di umorismo, umorismo che coglie l’assurdo, il comico di una situazione o di un personaggio; poi nell’atto di una più attenta riflessione, mette a nudo un’umanità che soffre.

Da ciò deriva prima il riso, poi il sorriso e talvolta la commozione, come per esempio nel personaggio di Belluca, l’impiegato che, nella novella “Il treno ha fischiato” rappresenta l’aspirazione a liberarsi dai tormenti della vita familiare e dell’ambiente di lavoro.

Nel saggio “L’umorismo” lo stesso Pirandello spiega in cosa consiste la sua arte umoristica. Se vediamo una vecchia signora goffamente imbellettata e vestita con abiti giovanili, egli scrive, avvertiamo che essa è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Nasce il comico, che è l’avvertimento del contrario. Ma se interviene la riflessione a suggerire che quella signora si concia così per trattenere a sé l’amore del marito, molto più giovane di lei, il nostro sentimento può accogliere la pietà: dall’avvertimento del contrario si passa al sentimento del contrario, dal comico all’umoristico. 

La “fortuna d’esser cavallo” è quella di non pensare, di non capire. Il cavallo mangia l’erba e sta bene; non sa che con la vecchiaia si diventa un peso; che l’uomo crudele ed egoista lo abbandonerà al suo destino. 

Questo è l’importante per vivere: godere di ciò che la vita ci offre e non pensare. 

Ma l’uomo si sente vivere e lo scrittore umorista rispecchia la vita, nel suo imprevedibile.

Sa che nell’uomo lottano, senza che l’una prevalga mai nelle altre, ben “quattro anime”: l’istintiva, la morale, l’oggettiva e la sociale, un po’ come le tre corde d’orologio che, a parere di Ciampa, de “Il berretto a sonagli”, ognuno si tiene in testa, la seria, la civile, la pazza. 

“La assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili perché son vere”, è detto nel romanzo “Il fu Mattia Pascal” e di fronte a quest’assurdità, imprevedibilità della vita, Pirandello attacca la vecchia logica positivistica, che a ogni causa fa corrispondere un determinato effetto e presume stupidamente di essere in possesso della verità. Il fine è quello di acuire la potenza visiva della persona per fargliela appuntare contro una società malata di presunzione, di far vedere che esistono diverse prospettive di guardare una cosa, far intravedere il diverso – migliore e suscitare il bisogno di ottenerlo. 

I tre romanzi pirandelliani in questo senso più attuali sono “Il fu Mattia Pascal”, i “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, “Uno, nessuno, centomila”.

Mattia Pascal, dopo essere fuggito di casa, viene riconosciuto nel cadavere di una persona e apprende dal giornale la notizia del suo suicidio. Pensa allora di mantenere in vita questo equivoco, credendo di aver acquistato finalmente quella libertà tanto sospirata. 

In realtà senza ancora capirlo ha reso libere la moglie e la suocera, non se stesso. 

Come può, infatti, essere libero senza un documento valido quando non può sposarsi, senza nessun diritto civile e protezione della legge quando deve vivere nella paura d’essere scoperto?

Per poter vivere, deve rientrare nella forma – odiata primigenia. 

Ma non può farlo senza prima recidere i legami che aveva allacciato con gli altri nella nuova situazione.

Ne deriva l’assurdità che per vivere deve morire due volte. Muore a Miragno come Mattia Pascal, muore a Roma come Adriano Meis. 

Il fatto è che Mattia non può più riprendere il suo posto nella “vecchia forma” in quanto questa, nel frattempo, ha riempito quel posto vuoto, lasciato da lui, con un’altra pedina.

Non gli resta che recarsi ogni tanto a vedersi “morto e sepolto là”. 

Il concetto che l’uomo essendo costretto a vivere sulla terra può salvarsi dal tormento assumendo una forma, cioè guardando gli uomini vivere senza vivere la propria vita, è ripreso nel romanzo. Si gira, ristampato sotto il titolo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”. In esso viene presa di mira la disumanità del sistema capitalistico borghese: “Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là! Debbo scappare. Il giornale, la borsa, l’ufficio la scuola. Nessuno ha tempo o modo di arrestarsi un momento a considerare.”.

Serafino, operatore cinematografico, si è convinto perfettamente che è necessario sorprendere gli uomini mentre vivono e non sanno che c’è in agguato una cinepresa che li riprende. Così diventa un automa al servizio della macchina e gira dal vero la tragica scena di una tigre che si slancia su un attore e lo sbrana. Serafino non riesce né a gridare né a gemere, poiché ha rinunciato all’anima, ha conquistato per sé il “silenzio di cosa”. 

Similmente Vitangelo Moscarda si libera da ogni impedimento sociale, rifugiandosi in un ospizio, nella pace della campagna.

“Pensare alla morte, pregare, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi…”.  Uno egli è prima dell’osservazione della moglie relativa al naso, centomila quando fa cose da tutti impreviste, moltiplicandosi in tanti personaggi, nessuno quando si estrania dalla vita, andando a vivere nell’ospizio. 

Ciascuno di noi possiede tante personalità quante gliene attribuiscono gli altri, perciò per se stesso è (più propriamente) nessuno e gli rimane solo la possibilità di osservare come lui appare agli altri.

Compare il motivo della natura come porto di riposo che si contrappone alla società caotica della natura – oasi di felicità proprio perché si limita a vivere, un motivo molto caro alla problematica pirandelliana e che ha già raggiunto vertici di poesia in novelle come “Ciaula scopre la luna”, “Il giardinetto lassù”, “Fuga”.

S’intuisce che per lo scrittore l’unica gioia può venire dalla contemplazione della natura in attesa del ritorno nell’essere universale. Egli vi giungerà attraverso l’arte, in cui la natura continua la propria opera. Il teatro è lo sbocco naturale di quest’arte, poiché nasce a un certo punto l’esigenza di dare vita drammatica ai personaggi. 

Liolà è ritenuto il capolavoro del teatro siciliano di Pirandello poiché esalta l’anticonformismo, la vita libera da convenzioni, pregiudizi, dal decoro ipocrita del codice borghese del perbenismo.

 

Con “Così è se vi pare” viene ripreso il tema di “Uno, nessuno, centomila”. La verità non esiste ma è relativa a ciascun individuo: di reale non c’è che il dubbio. 

I “Sei personaggi in cerca d’autore” esprimono il dramma dell’uomo che aspira ad avere una “forma” che lo sollevi dalla relatività della vita.

In conclusione si può dire che Pirandello comprende che l’uomo si rivela tale solo nel dramma, quando non le sue idee o le sue posizioni sociali sono impegnate, ma la radice stessa del suo essere.

I suoi personaggi sono i promotori di un mondo in cui si sa che la conoscenza è sempre parziale, da modificare per cui l’uomo è sempre insicuro, umile nelle sue prese di posizione, pronto al confronto con gli altri per raggiungere una condizione esistenziale più umana.

Questa è un’alternativa non indicata chiaramente ma fatta intravedere attraverso il dubbio, lo stimolo alla riflessione continua, l’invito all’umiltà.

È il dolore che porta l’uomo a ragionare, a rendersi conto delle sue sofferenze “mentre quando gode, si piglia il godimento e non ragiona: come se il godere fosse suo diritto”.

L’attualità del pensiero pirandelliano è tutta nel suo messaggio: “Le parole dette, da uomo, ad altri uomini”. 

Egli confidava ad amici che era sua “unica costante preoccupazione quella di cogliere aspetti e atteggiamenti dell’umanità”.

La sua vita stessa, cui non mancarono episodi tristi, gliene offrì l’occasione.

C’è una novella, a questo proposito, molto complessa per contenuti, forse la più significativa per comprendere la concettosità pirandelliana: “Rimedio, la geografia”.

Vivere, egli dice, è come navigare.

Abbiamo una rotta prestabilita da seguire, come credette Pascal? O siamo destinati a nascere, invecchiare ed esaurirci nella terra?

La risposta lo scrittore la trovò in una notte in cui dovette assistere all’agonia della madre, “incadaverata viva”.

Pur adorandola fino a vincere con l’amore la pena di vederla ridotta in quel modo, il sonno, la stanchezza, il freddo lo portarono a desiderare che la morte liberasse lei e lui.

Subito dopo il pentimento esplose il pianto accorato in cui chiese perdono alla madre, chiedendole ancora affetto e comprensione.

Quella comprensione che né i figli né la moglie avevano saputo dargli, risparmiandogli la veglia superiore alle sue forze fisiche. 

Bisogna voler bene, comprendere, perdonare, ricordarsi di quel che gli altri sono stati per noi anche quando la loro vita è in declino e non possono più darci niente.

E quando la disperazione ci assale non cercare rimedio nella speranza di una realtà trascendentale e futura.

Il rimedio va cercato nel piacere di trasferirsi con la fantasia in altri luoghi certi, concreti. Queste le considerazioni dello scrittore, che il suo rifugio lo trovò nel lavoro, nell’arte, nei viaggi fantastici e non.


“Sono un uomo”, diceva negli ultimi tempi, dopo il ricovero in clinica della moglie, “che ha tagliato tutti i ponti. Staccarsi, perché aveva una casa? Invecchiare in un luogo? Non si può invecchiare che con la propria compagna. Ed io… vuoto, vuoto. I figli, necessariamente, si fanno la propria vita… ma non è vero che io sia distaccato, vuoto dentro… ho una mia vita di sentimenti tutta mia, complessa per me… viaggio. Sono un viaggiatore senza bagagli”.

  

Delia Di Pasquale