Delia Di Pasquale

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La tragedia greca e il suo tragediografo più rappresentativo: Eschilo

2019-10-07 07:55:43

La tragedia ebbe la sua prima origine in area dorica. Lo affermavano i peloponnesiaci, adducendo che il verbo dran, da cui drama, è una parola dorica, perché in attico fare si dice prattein. Il termine tragodia, deriva da tragodos, cioè tragos (capro) e odè (canto).

Aristotele nella Poetica sostiene che la tragedia deriva dal saturicon, cioè da un coro di tragoi. Secondo Aristotele la tragedia nasce per improvvisazione di coloro che intonavano il ditirambo, cioè il canto in onore di Dioniso.
Egli afferma che la tragedia divenne ampia e seria quando abbandonò i racconti brevi e il linguaggio burlesco.
Tespi è il presunto inventore della tragedia. Nucleo originario della tragedia era il coro. La tragedia iniziava quando il coro, attraverso il parados di destra, entrava nell’orchestra a passo di marcia, si disponeva vicino all’altare di Dioniso e eseguiva la parodo (il termine parodos indica sia l’entrata del coro, sia il canto che esso eseguiva una volta entrato).
Finito il canto comparivano i personaggi e iniziava il primo episodio. Dopo il primo episodio la scena si vuotava dei personaggi e il coro eseguiva un altro canto, detto stasimo, cioè a piede fermo.
Seguiva un secondo episodio e un secondo stasimo, un terzo episodio e un terzo stasimo, e spesso un quarto episodio e un quarto stasimo. Il dramma si concludeva con l’esodo, cioè il canto che il coro intonava prima di uscire dall’orchestra.
Prima della parodo si ha il prologo, cioè un’introduzione al dramma. Il prologo poteva consistere in un monologo, seguito o no da un dialogo oppure da un dialogo. Lo schema tipico della tragedia contava, dunque, cinque elementi.
Il coro conta in Eschilo 12 coreuti, che diventarono 15 con Sofocle. Eschilo divise il coro in due semicori di 6 membri; premise a ciascun semicoro un parastates (capogruppo) e ad entrambi i semicori un corifeo (rappresentante del coro, colui che dialogava con i personaggi, gli altri coreuti cantavano soltanto).
I personaggi erano rappresentati da due attori che con Sofocle diventarono tre: il protagonista, il deuteragonista e il tritagonista.
Ogni attore poteva rappresentare più di un personaggio, sia maschile che femminile.
Gli attori recitavano, ma qualche volta potevano anche cantare. Calzavano coturni, uno stivaletto con la suola alta che ne elevavano la statura. Attori e coreuti avevano la maschera, che aveva il ruolo di amplificare la voce, oltre che di poter interpretare più personaggi. Lo schema del dramma satiresco era simile a quello della tragedia, solo il coro era diverso. In Attica era formato da Sileni, che danzavano con una pelle di capro, con coda e orecchie di cavallo. Il dramma satiresco, che fu inventato si crede da Pratina, inserisce un elemento fantastico e burlesco: la presenza appunto dei satiri.
La tragedia e il dramma satiresco si svolgevano durante gli spettacoli che avevano luogo in una delle feste per Dioniso. Le feste erano quattro: le piccole dionisie, le lenee, le antesterie e le grandi dionisie.

Il teatro sorgeva all’aperto nell’area del santuario di Dioniso, alle pendici dell’Acropoli ed erano formato da uno spiazzo semicircolare (l’orchestra), con intorno a semicerchio le gradinate per gli spettatori, chiamate cavea. Al centro dell’orchestra c’era l’altare di Dioniso e al centro della prima fila, c’era il posto per i sacerdoti di Dioniso. Oltre l’orchestra si vedeva la scena, il fondale all’inizio era fisso, cioè non c’erano quinte, né sipario, né scenografia. La scenografia fu inventata da Sofocle.
Vi erano delle macchine teatrali, una specie di gru (aiora) con cui si potevano sollevare in alto gli attori o fare apparire dall’alto un dio; un carrello (eccuclema) che portava sulla scena ciò che si immaginava avvenuto dentro l’edificio, di cui il fondale era la facciata. Gli spettacoli avevano carattere competitivo. All’Agone erano ammessi 3 poeti tragici e 5 poeti comici. I poeti tragici presentavano ciascuno tre tragedie e un dramma satiresco. I poeti comici presentavano ciascuno una commedia.
Dopo la rappresentazione delle opere, una giuria di cittadini estratti a sorte, assegnava il premio che consisteva in una corona più denaro. L’arconte sceglieva i poeti che dovevano partecipare all’Agone e assegnava loro il coro. Le spese per l’allestimento del coro erano sostenute da un cittadino ateniese molto ricco che era detto corego. La coregia era molto ambita ad Atene, perché procurava onori, privilegi e fama. Il corego era esentato dal servizio militare e aveva carattere sacro: chi lo offendeva veniva processato per empietà. La coregia era una liturgia, cioè un servizio pubblico sostenuto da un privato a proprie spese. Le spese per gli attori, invece, erano sostenute dallo stato. Gli spettatori pagavano l’ingresso, ma chi non poteva pagare l’ingresso, Pericle dava ai cittadini bisognosi il sussidio di due oboli per pagare l’ingresso a teatro.
Il teatro, infatti, diventava un luogo di integrazione culturale e sociopolitica aperto a tutti, anche ai più poveri. Chi andava ad assistere agli spettacoli teatrali veniva liberato dagli errori, dalle colpe, dai misfatti, dalle passioni negative. La tragedia secondo Aristotele produceva la purificazione (catarsi) da simili emozioni.

Il tragediografo più rappresentativo della prima metà del secolo V fu Eschilo, figlio di Euforione, del demo attico di Eleusi.
Nasce nel 525 a. C. ed è considerato l’iniziatore della tragedia attica. Eschilo fu il poeta ispirato da Dike. Animato da una fede incrollabile in Zeus e da un’ardente amore per Atene e per il suo destino, Eschilo fu spettatore dei mutamenti radicali della città e sosteneva che i popoli, le città, gli individui, crollano solo se infrangono la giustizia di Zeus. Aveva quindici anni quando il tiranno Ippia fu cacciato da Atene e fu iniziata la Democrazia. Ne aveva 35 quando nel 490 combatté contro i Persiani a Maratona. Ne aveva 45 quando nel 480 combatté sull’Artemisio e a Salamina, l’anno dopo a Platea e vide sbaragliato dalle armi dei greci l’esercito persiano. Nel 472 compose i Persiani, in cui celebrava la vittoria di Salamina. Dopo questa rappresentazione lasciò Atene e si recò a Siracusa, su invito di Ierone, dove compose le Etnee. Compose l’Orestea ritornato ad Atene, rappresentata nel 458 ed ebbe il primo premio.
Eschilo partì di nuovo per la Sicilia, si recò a Gela dove nel 456 a 69 anni morì.
Dicono che presentendo la fine avesse scritto lui stesso l’epitafio, conservato da un’anonima Vita di Eschilo.
Scrisse molto, conosciamo di lui 90 titoli e 7 tragedie. Tra i frammenti ci sono i resti di due drammi satireschi (I pescatori con la rete e Gli spettatori, ovvero partecipanti a giochi istmici).
Al centro del teatro di Eschilo vi è il problema dell’azione e della colpa, della responsabilità e del castigo. Eschilo rappresenta il dolore e si chiede perché l’uomo soffra. Da dove viene agli uomini il dolore? Egli si chiede se viene solo dal loro essere uomini, destinati alla sofferenza e alla morte, se viene solo da un errore originario, scontato dall’intera umanità, come l’eroe di Prometeo in Esiodo oppure se all’interno della condizione umana c’è uno spazio di cui è responsabile il singolo individuo.
Ma se l’uomo sbaglia in modo responsabile, perché sbaglia? È possibile evitare l’errore? È giusto che paghi lui solo oppure il castigo deve coinvolgere i discendenti? Per rispondere a queste domande Eschilo ha creato una tragedia fondata sulla ricerca.
Egli ha introdotto i termini ubris (violenza, tracotanza) e ate (accecamento), che assume il valore di colpa che porta a scelte sconsiderate e criminose. Sono queste le forze che trascinano l’uomo alla rovina e intorno a chi sbaglia si muovono divinità terribili come le Erinni persecutrici o l’alastor, il demone che sconvolge la mente di una persona. Il teatro di Eschilo si sviluppa su tre piani sovrapposti: cielo, terra, mondo sotterraneo, che collegano tra loro gli uomini con le loro vicende e il mondo delle forze invisibili, che li accompagnano. Il tema della giustizia e del suo agire nelle vicende umane è fondamentale. Dike per Eschilo è la legge che gli dei impongono al mondo e che regolano la colpa e la punizione. La divinità infliggendo al colpevole il castigo, gli insegna il giusto e gli dimostra la sua grazia, il suo favore. Eschilo è convinto che la giustizia trionfa comunque.
Eschilo fu un grande drammaturgo e un grande costruttore di scene.


Lingua e stile: Egli crea atmosfere buie, angosciose, drammatiche, come nell’Orestea, ma anche atmosfere esotiche, piene di colori, come nei Persiani. Egli usa queste atmosfere in modo funzionale, cioè per fare risaltare ancora di più quelle cupe e violente che predominano nei drammi. Fa uso della metafora. Famosissima l’immagine ossessiva della rete nell’Orestea: la rete è il drappo che si strinse Agamennone quando Clitennestra lo colpì nella vasca. Le metafore sono impiegate con un linguaggio severo, solenne e grandioso. Ci sono in Eschilo neologismi, epiteti composti, spesso accumulati in serie. Egli adotta le forme tipiche dello stile arcaico (la composizione ad anello, la tendenza ad organizzare il discorso con parole o metafore – chiave). Le parti liriche sono caratterizzate da una grande densità espressiva come in Pindaro e nella grande lirica corale. Per rappresentare le tragedie impiega il sistema trilogico, cioè tre tragedie accomunate dallo stesso filo conduttore.

I Persiani: questa tragedia, che faceva parte di una trilogia che comprendeva Fineo, Glauco e il satiresco Prometeo accenditore del fuoco, è l’unico dramma storico in cui la storia è trattata come un mito.
L’azione si svolge alla corte persiana a Susa, capitale dell’impero. La madre di Serse Atossa, vedova del grande Dario, evoca l’ombra del defunto re, che pronuncia un giudizio severo contro Serse, colpevole di tracotanza. Serse, infatti, viene sconfitto dagli ateniesi a Salamina, perché si macchia di ubris, supera cioè i confini segnati dagli dei, l’Ellesponto, e per questo viene punito.
Eschilo costruisce la tragedia in tre blocchi, prima entrano nell’orchestra i vecchi fedeli e si chiedono cosa ne sia del grande esercito partito col re per la Grecia, subentrano l’ansia, l’angoscia e lo sgomento. I letti sono vuoti, le spose piangono. La regina racconta un suo sogno: due donne alte, una in veste persiana e l’altra greca, litigano e sono da Serse aggiogate al suo carro, ma la greca lo rovescia. A questo punto arriva il messaggero che annuncia la disfatta, è la seconda parte del dramma. La narrazione si fa drammatica. Al centro di questa seconda parte l’ombra di Dario predice la sconfitta di Platea. La terza parte è dominata dal lamento: arriva Serse, sconfitto, lacero e solo, riconosce che un dio ha causato la sua rovina e lamenta la sua sorte e quella della sua terra. Serse, secondo Eschilo, aveva commesso un errore: non aveva interpretato bene i segni con cui gli dei manifestano agli uomini i limiti da non superare. Ai persiani era stato assegnato il dominio sulla terra. Serse era stato cieco e aveva superato questi limiti, per eccessiva potenza e per eccessiva ricchezza. La potenza e la ricchezza eccessive, sostiene Eschilo, accecano, fanno sbagliare e attirano il castigo divino. Tutto avviene per volontà degli dei, ma il male avviene per un errore umano.
I Persiani sono una tragedia collettiva, corale, in cui i personaggi, compreso Serse, occupano un ruolo marginale, rispetto alla tragedia di un intero popolo. Il vero protagonista è il coro.


Sette a Tebe: questa tragedia fa parte dell’Edipodia, di cui facevano parte Laio, Edipo e la Sfinge. Possediamo solo i Sette a Tebe. L’oracolo aveva avvertito Laio di non generare, perché sarebbe stato ucciso dal figlio. Laio, da empio, non osserva il divieto, ma appena gli nasce Edipo ordina di eliminarlo. Il bambino invece viene salvato, cresce e senza conoscere il padre lo uccide: così il destino si compie. Edipo si reca poi a Tebe rimasta senza re, scioglie l’enigma proposto alla Sfinge e sposa la regina rimasta vedova di Laio, senza sapere che è sua madre. Quando tutto si acceca. In un secondo tempo maledice i figli Eteocle e Polinice, nati dall’incesto, e predice che si uccideranno a vicenda: nei Sette a Tebe ala predizione si compie. All’origine è l’infrazione di Laio. Laio è colpevole, ma il castigo ricade sui discendenti, di generazione in generazione. Nei Sette a Tebe Eschilo conclude che i figli di padre colpevole sono indotti a loro volta in colpa. Arriva il messaggero e riferisce sui sette condottieri nemici che si preparavano ad attaccare ciascuno davanti ad una porta. A ciascun guerriero nemico Eteocle oppone un guerriero tebano. Al settimo e ultimo, che è suo fratello Polinice con l’immagine di Dike sullo scudo, oppone se stesso e improvvisamente capisce che così si compirà la maledizione del padre. Eteocle è destinato a morire, ma muore anche perché ha scelto il suo destino. Al contrario di Sofocle, che concentrerà la sua riflessione sul destino del personaggio centrale della storia, Edipo, a trilogia di Eschilo sviluppa la vicenda mitica nel suo complesso. Il destino dell’eroe non è mai isolato: egli si trova al centro di una trama che lo collega inestricabilmente alla città, alla famiglia.

Le supplici: è anch’esso un dramma corale. Alle supplici seguivano gli Egizi, le Danaidi e il dramma satiresco l’Amimone.
Pelagso, il re di Argo, deve scegliere tra due decisioni ugualmente funeste. E sceglie sapendo che “senza dolore non v’è mai soluzione”. Per sfuggire alle nozze che i cugini volevano loro imporre con la forza, cinquanta figlie di Danao erano arrivate ad Argo col padre dall’Egitto. Ed ecco Pelagso trovarsi davanti a un dilemma. Se le accoglierà, esporrà la città alla vendetta dei figli di Egitto. Se le caccerà, verrà meno al dovere ospitale e dovrà rispondere del suicidio minacciato dalle fanciulle. Pelagso accoglie le supplici, ma dopo aver consultato il popolo.
A dominare nelle Supplici è il terrore per ciò che il futuro può riservare. Alla fine affiora un conflitto tra la sfera della castità e quella dell’amore. Le Danaidi si avviano verso Argo invocando in coro Artemide di rimanere sempre caste, invece il coro delle ancelle, al loro seguito, celebra la potenza di Afrodite e Era, l’amore e le nozze. Le figlie di Danao hanno sia ragione che torto: hanno ragione di ribellarsi a delle nozze imposte con violenza, ma hanno torto di rifiutarsi a qualsiasi matrimonio.
Alle Supplici facevano seguito gli Egizi e infine le Danaidi, dove si spargeva altro sangue: durante la notte nuziale le Danaidi uccisero ciascuno il proprio marito, tranne una, Ipermestra che, innamorata dello sposo, aveva deciso di risparmiarlo. Nelle Danaidi Ipermestra subiva i rimproveri del padre Danao e delle sorelle che aveva tradito e forse doveva sottoporsi a un processo; ma il conflitto era sedato dall’intervento di Afrodite, che compariva per proteggere la ragazza.


Prometeo incatenato: è l’unico dramma superstite di una trilogia che comprendeva il Prometeo liberato e il Prometeo portatore di fuoco. La tragedia è povera di azione e di canti corali. Il protagonista è sempre sulla scena: da quando all’inizio viene incatenato da Efesto a una rupe per ordine di Zeus, a quando alla fine viene inabissato con tutta la montagna dal fulmine di Zeus. A commiserare Prometeo arriva il coro delle Oceanine, il loro padre Oceano e l’infelice Io. A essi Prometeo dice la sua colpa: che è quella di aver aiutato gli uomini, liberandoli dalla paura della morte, donando loro il fuoco, insegnando loro le arti. E predice che Zeus sarà detronizzato dal figlio, se sposerà la dea che non deve. Prometeo sa che la dea è Teti, ma non lo rivela a Hermes mandato da Zeus a chiederglielo: prima vuole essere liberato. La liberazione dal supplizio sarebbe avvenuta nella tragedia successiva. La critica è nata soprattutto a causa della figura di Zeus, che non è parla così elevata e nobile come negli altri dramma. Lo Zeus nel Prometeo è in realtà lo stesso dio supremo, inflessibile e giusto a cui il coro nell’Agamennone rivolge la preghiera. Punendo il Titano, colpevole di aver infranto l’ordine per favorire i mortali, Zeus pone la giustizia al di sopra dell’amicizia e della gratitudine.

La trilogia Orestea rappresentata alle grandi dionisie nel 458 a. C. è l’unica trilogia giunta fino a noi. La storia è quella dell’uccisione di Agamennone da parte di Clitennestra, l’uccisione di Clitennestra da parte di Oreste, la purificazione di Oreste da parte dell’Areopago, un tribunale istituito apposta da Atena per giudicare i delitti di sangue. Il processo davanti all’Areopago era un’innovazione del mito. Nell’Agamennone Eschilo annuncia la caduta di Troia. Nel prologo la sentinella va a riferirlo a Clitennestra. Nell’episodio successivo arriva su un carro lo stesso Agamennone con accanto Cassandra, prigioniera di guerra. La moglie Clitennestra si mostra fedele e devota e invita il re ad entrare nella reggia su un tappeto di porpora. Il tappeto ha un valore simbolico: Agamennone, passandoci di sopra, si arrende alla moglie e si immerge in un fiume di sangue. In seguito Clitennestra invita anche Cassandra ad entrare e poiché essa rimane immobile, rientra sola nella reggia. Cassandra viene invasata dal dio e vede la casa affollata da Erinni ubriache di sangue, l’adulterio subito da Atreo da parte del fratello Tieste, i figli di Tieste che porgono al padre le proprie carni, Egisto il figlio superstite di Tieste, che nella casa cova vendetta e Clitennestra che sta per uccidere un uomo e la sua concubina, la madre che sarà uccisa dal figlio. Cassandra varca le porte della casa come se fossero quelle di Ade. Il coro è smarrito, appare Clitennestra con la scure in mano e dice che Agamennone ha pagato per avere ucciso la figlia e con lui è stata uccisa Cassandra.
Nelle Coefore Oreste torna dal suo esilio per vendicare il padre: con lui è l’animo Pilade. Depone sulla tomba di Agamennone una ciocca di capelli come offerta votiva. La sorella Elettra, che insieme alle Coefore, le donne argive che portano libagioni al defunto e formano il coro, scorge la ciocca di capelli e intuisce che è del fratello. Oreste le va in contro e si svela. Entrambi invocano vendetta. Si avvia con Pilade alla reggia e appena arriva Egisto lo uccide. Clitennestra accorre alle grida e impugna una scure decisa ad uccidere il figlio. Oreste l’affronta, Clitennestra si strappa la veste e gli mostra il seno che lo nutrì. Oreste dapprima impietrito trascina in seguito la madre nella reggia e la uccide. Improvvisamente appaiono le furie, le cagne vendicative della madre, solo lui le vede e fugge disperato. Il dramma delle Eumenidi prende il nome dal coro delle Erinni, le furie della madre che alla fine diventano benevole, appunto Eumenidi. È la rappresentazione drammatica del rimorso. Oreste dopo il matricidio perseguitato dalle Erinni torna a Delfi da Apollo e viene da lui inviato da Atena, la quale istituisce ad Atene l’Areopago, fa assolvere Oreste, pareggiando col suo voto i voti dei giudici e convince le Erinni a diventare dee benevole.
Oreste è un uomo in balia di forze esterne più potenti di lui. Eschilo sostituisce un organo umano, l’Areopago, all’ordine divino. Immagina un processo in cui Oreste è l’imputato, le Erinni sono l’accusa, Apollo è la difesa, i cittadini estratti a sorte sono i giurati, e Atena è il presidente.
La tragedia rappresenta lo scontro tra due opposte legislazioni: quella spietata delle Erinni e quella nuova di Zeus, che vuole il reinserimento del colpevole nella comunità, in seguito ad un processo pubblico. Oreste è assolto con metà dei voti, il pro e il contro si bilanciano. Il conflitto viene superato, ma non sarà risolto.