Davide Romano

Libri & Scrittura

In risposta ad alcune obiezioni circa gli "Appunti di una lezione mai svolta"

2020-06-27 20:43:15

Le categorie di "negazionismo", "complottismo", "destra" e i loro nessi - Falsa sineddoche ed estensioni del dettaglio - Modelli astratti e pratica clinica - Controllo digitale (cfr. il post https://www.rinascimento.tv/davideromano/blog/appunti-di-una-lezione-mai-svolta/PID1E06ED?shun=davideromano).

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N.B.: l'immagine di copertina è tratta dal post Instagram di Robert Kennedy Jr del 27 aprile 2020 (THE BIG SHORT).

I riferimenti di pagina nel testo sono relativi all'articolo pubblicato su Scribd (Appunti di una lezione mai svolta).


Ringrazio M. per la pazienza e la scrupolosità con cui ha letto il mio pamphlet, prendendosi persino la briga di scrivere un commento e di consultare le fonti da me citate. Uno dei propositi era proprio intrecciare le mie riflessioni con una serie di testi che considero degni di essere più ampiamente conosciuti e discussi. L’attenzione da lei dedicata merita di essere ricambiata con una risposta meditata, anche perché le obiezioni forniscono non di rado uno stimolo per affinare, approfondire o eventualmente correggere alcune argomentazioni. Trovo che certe sue critiche siano però condizionate da categorie e concetti usati forse in maniera un po’ irriflessa, nel senso strumentale che spesso viene suggerito da una comunicazione troppo unidirezionale (come lamentavo appunto nel mio testo). In particolare mi colpisce il nesso che ha stabilito tra negazione (almeno parziale) della pandemia, ambienti di destra e complottismo.


Non so come abbia dedotto che io neghi in parte l’esistenza della pandemia, della quale ho scritto invece che è “insidiosa e con aspetti ancora oscuri”. L’avevo ribadito proprio per evitare facili accuse di “negazionismo”, vista la diffusa ipersensibilità che, su certe questioni emotivamente sovraccaricate, spinge a incasellare chi esprime dubbi e critiche nelle categorie dell’“anti-qualcosa”, “no-whatever”, “negazionista”. Il mio intento era di contribuire a “mantenere il senso delle proporzioni” quando “molti stanno perdendo il loro” (Lord Sumption), soprattutto rimarcando la questione cruciale dell’assoluta disparità tra le misure senza precedenti adottate e l’entità della pandemia la quale, come dimostra appunto il numero dei morti nel mondo, non è “neanche lontanamente paragonabile sia ad altre del passato più o meno recente sia a tante malattie o a fattori diversi” di decessi prematuri (p. 3). Esiste qualche valida ragione per contrastare un fenomeno di queste specifiche dimensioni con provvedimenti così abnormi e spesso scriteriati (e a questa reazione spropositata rimandava la mia citazione di Agamben, la quale non era attinente alle sue riflessioni sulla Invenzione di un’epidemia)? Finora non ho sentito risposte convincenti e dubito che ce ne siano di razionalmente fondate, a meno che non si tirino in ballo diversi obiettivi e strategie.


A questo proposito, trovo interessanti le riflessioni del Pedante sulla “falsa sineddoche” e sulle “estensioni del dettaglio”, che nel sentimento generale e nella giurisprudenza hanno reso norma il caso peggiore, contribuendo così all’adozione e all’accettazione di misure inusitate e


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"facendo poltiglia dei criteri di proporzionalità e circoscrizione a cui dovrebbe attenersi una buona amministrazione. In pratica, ogni singolo italiano ha visto se stesso come un anziano cardiopatico residente nella provincia di Bergamo e come tale è stato trattato dalle autorità, senza distinzioni e quindi senza neanche dedicare attenzioni speciali alle situazioni più a rischio. La distorsione per così dire «tecnica» e originaria ha spalancato gli inferi dell’indiscriminazione. Se la salute è un bene, un virus per quanto aggressivo non è che una singola parte di tutto ciò che la minaccia, dalle centinaia di migliaia di patogeni in circolazione alle migliaia di malattie diagnosticate ogni giorno, di cui le più pericolose e diffuse – quelle cardiovascolari e oncologiche, responsabili di quasi due terzi delle morti in Italia – non sono infettive. Le malattie stesse concorrono poi solo in parte a definire il più ampio concetto di salute, che per l’Organizzazione mondiale della sanità è uno «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia o infermità» (Costituzione dell’OMS, corsivi miei). È consolidata la nozione che stress, privazioni materiali e affettive, emarginazione, paura e altre forme di malessere «psichico e sociale» esercitano un impatto diretto sulla salute fisica. Non da ultimo, la salute correttamente intesa in ogni sua articolazione è sì tutelata dalla legge, ma è a sua volta parte di un intero corredo di diritti, tutti ugualmente incomprimibili, che si integrano e si rinforzano a vicenda per realizzare la società immaginata dagli architetti costituzionali.


(IV). La falsa sineddoche è un fallimento cognitivo che distorce la realtà depauperandola e alterandone le proporzioni. Se applicata alla prassi è specialmente pericolosa perché crea l’illusione di una gerarchia dove una istanza ossessivamente fissata cannibalizza le altre e ne reclama l’asservimento a sé e la sacrificabilità, fino ad annullarle. Il metodo «emergenziale» che ha indirizzato il sentire e le decisioni più importanti del nostro secolo trae linfa da questo paralogismo nella misura in cui impone allarmi di volta in volta improcrastinabili ed esclusivi all’attenzione del pubblico e dei decisori, li incarta a ogni nuovo giro nella retorica bellica dell’«attacco senza precedenti» e rende così accettabile l’olocausto di ogni altro valore, fosse anche il più sacro, che si ritenga d’intralcio sulla via della vittoria. Dal terrorismo allo «spread», dalle migrazioni alle malattie esantematiche, dalla corruzione ai «fascismi», da «la Cina» che ci spinge nel vasto mondo al virus che ci rinchiude tra la cucina e il bagno, trascinato da un’eccezione all’altra il corpo sociale si appiattisce e si spoglia delle sue dialettiche, delle trame e dei tessuti connettivi che ne mantengono in equilibrio la complessità. Schiacciato dal pericolo unico si accartoccia nel pensiero unico e nella parola unica, dirotta le sue energie migliori nell’irrilevanza delle tifoserie teoretiche e diventa un giocattolo elementare, docile al manovratore.


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Un organo non può però vivere senza un organismo, non si può quindi curare il primo sopprimendo il secondo. All’atto pratico, strabilia la pretesa di evitare un rischio, in quest’ultima versione di tipo sanitario, producendo una valanga di rischi incalcolabilmente peggiori, anche dello stesso tipo. Se la malattia che si teme oggi colpisce una parte della popolazione con esiti gravi in una parte dei casi, la devastazione antropologica con cui la si vorrebbe frenare colpisce tutti: nella salute psichica minata dal terrore, nella sussistenza, nell’accesso ai servizi e nello sfregio delle funzioni umane più elementari che, per colmo di raccapriccio, si sperimenta partendo dai corpi e dalle menti dei più giovani. Sorvolando sulla salubrità di chiudersi in casa o di respirare gli scarichi dei propri polmoni, strabilia che non si sia ad esempio previsto, come denuncia oggi il presidente della Società Italiana di Cardiologia, che dall’inizio dell’epidemia le morti per infarto e altre patologie del cuore – prime cause di decesso in Italia – sarebbero triplicate a causa della riduzione dei ricoveri e dei ritardi degli interventi «per paura del contagio». O che più di due terzi degli italiani avrebbero rinunciato a effettuare accertamenti e visite specialistiche per paura di uscire (Demopolis). O ancora, che nel giro di poche settimane sarebbe più che raddoppiato il numero di coloro che si rivolgono alle Caritas diocesane per chiedere cibo e sussidi. O più in breve, che presto «le conseguenze del Coronavirus uccideranno più persone della pandemia stessa» per gli effetti della recessione sui più poveri, come ammonisce ancora Caritas Internazionale. Queste non sono che timide ricognizioni in corsa, ma basta davvero poco per immaginare quali rovine umane si trascineranno con sé i fallimenti a migliaia e la disoccupazione a milioni e, sullo sfondo, l’aggressione alle radici della dignità e del diritto che ci proteggono non solo dal bisogno, ma più a fondo dall’imbarbarimento, dalla guerra e dal caos.


Strabilia infine che tra chi si balocca coi sofismi della grande economia quasi nessuno sia stato ancora sfiorato dal dubbio che una comunità in cui non si lavora e le cui forze più fresche e produttive devono insensatamente abbruttirsi nell’ozio, dove si mandano per sempre al macero interi settori di impresa e ci si vota all’assistenzialismo, ebbene che una comunità del genere non ce l’abbia neanche più, un’economia. Disossata e dissanguata, stramazzerà sotto i colpi di qualsiasi emergenza pubblica e quindi anche di quella contro cui oggi pretende di vincere. E basterebbe fermarsi qui. Se già ieri il comparto pubblico piangeva miseria, da domani, con il prosciugamento delle entrate fiscali, chi pagherà gli stipendi dei medici-eroi? E le postazioni di terapia intensiva? E i pronti soccorsi? E tutta la sanità pubblica? E se i giovani che possono lavorare senza correre grandi pericoli devono astenersi per amore dei vecchi (salvo poi respingerli sulla soglia dell’ospedale perché... mancano i letti), chi pagherà a questi ultimi non dico le cure, ma anche le pensioni che qualcuno ha già insinuato essere a rischio? Baratteremo l’eventualità che una parte si ammali con la certezza che muoiano tutti di stenti? E non è, si badi, una questione di soldi. Senza la ricchezza creata dal lavoro i soldi sono carta straccia oppure debiti da ripagare liquidando gli ultimi tranci vivi del patrimonio comune, secondo la più limpida e vieta parabola terzomondiale [1]".


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[1] Il Pedante, Un culto di morte, 12/5/2020 (http://ilpedante.org/post/un-culto-di-morte).


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Penso di potere ribadire, con più di qualche ragione, che si è decisamente sopravvalutata l’entità del problema sanitario rispetto alle molto sottovalutate conseguenze sociali, economiche e antropologiche che derivano dalla presunta “cura”. Ciò non equivale affatto a negare l’epidemia, né in tutto né in parte, anche se nulla vieta di interrogarsi sui svariati aspetti di questa vicenda che rimangono ancora oscuri, tentando di approfondirli con sano spirito critico. Sarebbe interessante esaminare più attentamente, per esempio, la validità dei criteri in base ai quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara una pandemia, un concetto che la stessa OMS ha riformulato proprio in occasione dell’influenza suina del 2009, suscitando numerose e vivaci critiche anche in sede di istituzioni europee. Proprio l’episodio della suina è un precedente molto istruttivo del quale mi riprometto di scrivere prossimamente in altri miei articoli, che affronteranno anche alcuni aspetti tecnico-scientifici, tra cui la sensibilità e la specificità dei tamponi e dei test sierologici, il modo quantomeno discutibile di raccogliere e comunicare i dati su contagiati e morti, l’anomala concentrazione locale di focolai epidemici.


Non sarò certo io a dirimere le controversie in ambiti che non sono di mia stretta competenza, ma come tutti possiedo sufficiente raziocinio per valutare notizie, dichiarazioni e, con un po’ di tempo e di applicazione, anche molte informazioni ricavate dagli studi scientifici, con i quali già da qualche anno ho cominciato a confrontarmi regolarmente in merito a questioni familiari che mi toccavano da vicino. In sostanza svolgo la mia solita attività di ricerca e di critica delle fonti, e se mi imbatto in questioni e dubbi interessanti (molti dei quali sollevati dagli stessi medici e ricercatori) non mi esimo certo dall’esaminarli, a prescindere dal fatto che siano stati manipolati o distorti da “complottisti” o da “troppi siti e movimenti di destra” (come ha suggerito anche l’inchiesta di «Report» Il virus nero, trasmessa su Rai 3 il 27 aprile [2]).


Gli orientamenti politici, le convinzioni ideologiche e religiose di chi enuncia o diffonde un messaggio non possono essere infatti assunti come criteri di veridicità del messaggio stesso, ma la fallacia ad hominem circostanziale, insieme con molte altre strategie retoriche (argomenti fantoccio, argomenti ab auctoritate e ad ignorantiam, petizioni di principio, colpa per associazione) viene spesso usata a piene mani da un giornalismo e da istituzioni che accusano di mistificazione l’informazione indipendente con un’insistenza e un accanimento pari alla pervicacia con cui essi stessi profondono sistematicamente menzogne, omissioni e manipolazioni. Gli abbondanti esempi degli ultimi mesi proseguono nel solco di una lunga tradizione arricchitasi negli anni di perle indimenticabili, spesso usate per giustificare guerre così umanitarie da produrre milioni di morti. Oltre al grottesco paradosso del bue che dà del cornuto all’asino, si assiste poi a uno spettacolare rovesciamento dei ruoli a livello politico, per cui chi ha per anni denunciato gli “impresari della paura”, rei di raccogliere consensi alimentando timore e odio (soprattutto verso gli immigrati) per poi reclamare “pieni poteri”, adesso sostiene convintamente un regime di polizia sanitaria che sospende a tempo indeterminato una impressionante serie di libertà fondamentali, usando il bastone del panico e la carota della speranza di generose promesse relative a guinzagli leggermente più lunghi.


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[2] Per la trascrizione completa dell’inchiesta, v. https://www.rai.it/dl/doc/1588094766598_virus_nero_report.pdf.


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Penso che chi si proclama sinceramente democratico dovrebbe impegnarsi a discutere ed eventualmente a contestare – anche duramente, ma sempre nell’ambito di un confronto dialettico – le idee di chi la pensa diversamente, senza ricorrere alla ormai consueta pratica della demonizzazione o della censura di avversari politici e ideologici (magari brandendo pure a sproposito il “paradosso della tolleranza” di Karl Popper [3]). Oltre a essere una negazione di fatto delle basi del confronto democratico, in ultima analisi simili atteggiamenti di chiusura rischiano altresì di inficiare la capacità di giudizio, ingessandola in artificiose polarizzazioni per le quali, ad esempio, o si prende per buono il numero di morti registrati nel mondo oppure lo si considera semplicemente “un’invenzione, e hanno ragione Trump e Bolsonaro”. Ergo tertium non datur?


Questa netta dicotomia non lascia spazio alle argomentate critiche di parecchi specialisti di tutto il mondo, i quali hanno rilevato, tra le varie cose, che “inserire nei casi di Coronavirus tutti quelli che sono stati scoperti positivi o durante la vita o anche nel post mortem” (ma a volte persino in assenza di qualunque test, solo sulla base di supposizioni diagnostiche [4]) sta paradossalmente “azzerando la mortalità per qualsiasi patologia naturale che sarebbe occorsa anche in assenza del virus” [5]. Non sono certo le migliori premesse per contribuire a dipanare una matassa già molto ingarbugliata, né finora si è notato un impegno significativo, da parte di giornalisti e autorità, per chiarire le ragioni delle inconsuete dinamiche della pandemia, la quale ha colpito tanto duramente alcune limitate aree geografiche mentre è passata inosservata altrove, se non fosse stato per la campagna mediatica di terrore e i provvedimenti restrittivi indiscriminati. L’anomala localizzazione dei focolai epidemici e la squilibratissima distribuzione per sesso, per età e per condizioni pregresse dovrebbero almeno indurre a valutare il possibile ruolo di altri fattori, anche di natura non virale.


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[3] Cfr. Jason Kuznicki, On the Paradox of Tolerance. What Did Popper Actually Believe About Speech and Tolerance in a Liberal, Pluralistic Society?, «Libertarianism.org», 17/8/2017 (https://www.libertarianism.org/columns/paradox-tolerance).

[4]  “In cases where a definite diagnosis of COVID19 cannot be made, but it is suspected or likely (e.g., the circumstances are compelling within a reasonable degree of certainty), it is acceptable to report COVID19 on a death certificate as “probable” or “presumed.” In these instances, certifiers should use their best clinical judgement in determining if a COVID19 infection was likely”. U.S. Department of Health and Human Services, Centers for Disease Control and Prevention, National Center for Health Statistics, National Vital Statistics System, Guidance for Certifying Deaths Due to Coronavirus Disease 2019 (COVID19), Report n. 3, April 2020, p. 2, cfr. p. 6 (https://www.cdc.gov/nchs/data/nvss/vsrg/vsrg03-508.pdf).

[5] Dichiarazioni di Alessandro Bonsignore, presidente dell’ordine dei medici della Liguria, citate in Polemica sui numeri del Coronavirus, Bonsignore: “Non ci sono più morti per altre patologie”, «Primocanale.it», 27/4/2020 (https://www.primocanale.it/notizie/polemica-sui-numeri-del-coronavirus-bonsignore-non-ci-sono-pi-morti-per-altre-patologie—218746.html).


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Non mi è ben chiaro, invece, a che cosa si riferisca l’affermazione “lascio stare la questione «tecnici» perché, anche in questo caso [oltre cioè alla “invenzione dell’epidemia”], il complottismo ha manipolato le notizie”. Posso solo ipotizzare che alluda forse al mio accenno polemico nei riguardi dei “sedicenti esperti” che “nell’emergenza attuale hanno sostenuto tutto e il contrario di tutto, incorrendo anche in grosse cantonate” (p. 8). A scanso di equivoci, voglio chiarire che in quel caso intendevo riferirmi in particolare ai virologi da salotto televisivo, i quali hanno chiamato addirittura alla “resistenza, come partigiani, contro questo dittatore, questo virus” [6], lanciando strali contro chi ne minimizza gli effetti, mentre poco più di un mese prima sostenevano che “in Italia il rischio è zero. Il virus non circola” [7]. Beninteso, cambiare idea è perfettamente legittimo e anche auspicabile, se deriva da una presa d’atto onesta e meditata della realtà. Non è accettabile invece che ci si arrocchi sulla propria posizione, proclamandola dalle platee mediatiche come un dogma inconfutabile e pretendendo la censura di fondate opinioni diverse espresse da altri scienziati e ricercatori almeno altrettanto qualificati.

 

Dal canto loro, gli ineffabili esperti del comitato tecnico-scientifico hanno prodotto elaborazioni matematiche che arrivavano a prevedere cifre spaventose di occupazione dei posti in terapia intensiva nel caso di una completa e totale riapertura. Qualcuno si è preso la briga di evidenziare le falle matematico-statistiche di quelle previsioni [8], ma pur senza entrare nei dettagli ciò che sorprende è la discrepanza tra i pessimistici modelli del comitato (basati su premesse metodologiche difficilmente verificabili [9]) e la realtà di un significativo svuotamento delle terapie intensive in atto già ad aprile. E non si trattava certo di un effetto della segregazione, dato che negli stati in cui sono state adottate misure molto meno restrittive – tra i quali Svezia, Israele, Svizzera – non si sono verificate catastrofi sanitarie (in Italia è andata peggio), nonostante peraltro la Svezia sia tra i paesi dell’UE con meno posti letto ospedalieri in rapporto agli abitanti [10], un dato peggiore dell’Italia anche per quanto riguarda i posti per le cure intensive e intermedie [11].


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[6] Coronavirus, Burioni: “Si può uscire di casa ma da soli”, «Adnkronos», 9/3/2020 (https://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2020/03/09/coronavirus-burioni-puo-uscire-casa-soli_1JluKKUkYZjKymWoysUqOJ.html).

[7]    Virus, Burioni: “In Italia il rischio è zero”, «Adnkronos», 2/2/2020, (https://www.adnkronos.com/salute/2020/02/02/virus-burioni-italia-rischio-zero_4dqZ5UUAKtxSKUIhRYlvqJ.html).

[8]  Holding Carisma, Alcune considerazioni matematico statistiche sul documento riaperture comitato tecnico scientifico, 28/4/2020 (https://www.holdingcarisma.it/it/news/gc_considerazioni_sul_doc_riaperture_comitato_tecnico_scientifico-64.html).

[9]  Cfr. Gianfranco Polillo, Perché mi paiono folli le previsioni del Cts sulle terapie intensive, «Start Magazine», 29/4/2020 (https://www.startmag.it/economia/stime-cts-terapie/).

[10] Eurostat, Hospital Beds by Type of Care, ultimo aggiornamento 24/2/2020 (https://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/submitViewTableAction.do).

[11] Cfr. Andrew Rhodes et al., The Variability of Critical Care Bed Numbers in Europe, «Intensive Care Medicine» 38 (2012), pp. 1647-1653 (1650-1651):  https://doi.org/10.1007/s00134-012-2627-8.


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Chi invece non aveva tempo di baloccarsi con modelli matematici, perché impegnato nella pratica clinica sul campo, aveva già potuto acquisire informazioni ben più rilevanti sulla malattia anche cominciando a eseguire, quasi con un atto di disobbedienza civile, le autopsie tuttora sconsigliate dalle circolari ministeriali [12]. In virtù di tali conoscenze è stato possibile correggere la diagnosi e di conseguenza gli approcci terapeutici: una volta appurato che la causa delle complicazioni fatali non era la polmonite, bensì la coagulazione intravascolare disseminata (CID, cioè un’infiammazione acuta del sistema vascolo-arterioso), si è passati dal ricorso sistematico alla ventilazione meccanica (in questi casi inutile, se non controproducente) alla adozione di cure meno invasive, più tempestive ed efficaci, che si possono effettuare anche a casa, liberando quindi sensibilmente i reparti ospedalieri. Ne è la prova il costante calo (in atto già da marzo) della percentuale dei positivi ricoverati in terapia intensiva, come si può notare nel grafico qui sotto [13]. Sarebbe interessante, d’altronde, capire perché tutto questo si sia dovuto imparare così tardi e in circostanze tanto sfavorevoli, data l’assenza di valide e puntuali indicazioni (anzi, talvolta con la zavorra di direttive fuorvianti) da parte di chi aveva affrontato e poi apparentemente risolto con mesi di anticipo l’epidemia, oltreché delle istituzioni preposte alla sorveglianza sanitaria, in primis l’OMS.


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[12]  Angelo Maria Perrino, Coronavirus, le autopsie non vanno fatte. Ordine del Ministero della Salute, «Affaritaliani», 10/5/2020 (https://www.affaritaliani.it/blog/cose-nostre/covid-19-le-autopsie-non-vanno-fatte-ordine-del-ministero-della-salute-671347.html).

[13] Fonte: https://infogram.com/covid-19-positivi-e-terapia-intensiva-1ho16v8q8q082nq. Per la serie completa dei grafici, cfr.: https://utils.cedsdigital.it/coronavirus/.



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Quanto alla questione del tracciamento, sarebbe senz’altro ingenuo pensare che abbia inizio soltanto adesso: il problema del controllo digitale è annoso e si è gravemente acuito dopo l’11 settembre 2001 (nello stesso periodo che ha visto lo sviluppo dei social network) anche in virtù di una scarsa consapevolezza generale riguardo a questo tema. Capita sovente che chi rimarca l’importanza di un approccio rigoroso, strutturato e trasparente a garanzia della riservatezza online, nonché l’esigenza di adottare individualmente dei minimi accorgimenti di tutela personale, venga bonariamente deriso come un esagerato paranoico da coloro i quali considerano che i piccoli affari della quotidianità dei comuni cittadini siano privi d’interesse e che quindi non ci sia “nulla da nascondere”. La sottovalutazione del problema o, in maniera speculare, la rassegnata presa d’atto che “tanto ormai siamo tutti sorvegliati” possono aver giocato un ruolo non secondario nel favorire la diffusa accettazione dell’idea del tracciamento digitale in momenti di dichiarata pandemiasicché anche qualche tenue perplessità è stata facilmente accantonata (forse pure in questo caso con un po’ di ingenuità) di fronte alle rassicurazioni relative a “dati numerici e non nominativi”, alla loro conservazione per un periodo di tempo limitato e alla successiva eliminazione


Proprio l’esperienza attuale, tuttavia, induce a nutrire qualche dubbio sulla temporaneità della sorveglianza e sulle sue modalità apparentemente sicureè a tutti evidente, infatti, che la stessa sospensione delle libertà costituzionalmente garantite, dapprima presentata come eccezionale, circoscritta e transitoria, si sta prolungando ben oltre le poche settimane inizialmente previste, mentre al contempo un coro sempre più numeroso avverte che sarà necessario abituarsi alla nuova vita, perché “nulla sarà più come prima” (sarebbe peraltro gradita una esplicitazione dei motivi che proprio ora rendono imprescindibile tale cambiamento radicale). È difficile pertanto scacciare il forte sospetto che il tracciamento digitale, alla cui adesione si rischia di vedere dipendere magari la fruizione di servizi e quindi la piena partecipazione alla vita sociale, politica ed economica, non sia altro che l’ennesimo regalo avvelenato (come altri spacciati per miracolosamente risolutivi) contenuto nell’enorme cavallo di Troia che è stato introdotto nelle nostre città grazie alla subdola opera persuasiva di tanti novelli Sinone.


(Davide Romano, 20 maggio 2020)


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