Davide Romano

Libri & Scrittura

Appunti di una lezione mai svolta

2020-06-13 08:57:15

Riflessioni critiche di un "insegnante per caso" sulla inusitata reazione politica e sociale al problema Coronavirus/COVID-19: rischi e opportunità epocali e spunti offerti da opere letterarie, filosofiche e cinematografiche. -->

Sí vedrem chiaro poi come sovente

per le cose dubbiose altri s’avanza,

et come spesso indarno si sospira.


(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto XXXII)



Cari ragazzi, 


nel mese di marzo alcuni di voi hanno svolto un tema sul modo in cui la malattia nota come COVID-19 è entrata nella vostra vita. La traccia si concludeva con un’accorata lettera pubblicata a marzo su «Famiglia Cristiana» e presto diventata – conformemente allo spirito dei nostri tempi – virale. Pungolato dalle parole dell’autore, lo psicoterapeuta Alberto Pellai, in quei giorni ho cominciato anch’io a mettere per iscritto alcuni pensieri che andavo rimuginando sin dall’inizio della chiusura scolastica e che avrei voluto condividere con voi; mi ero però imposto il silenzio e una pausa di studio, anche per evitare di turbare la sensibilità di qualcuno nel clima apparentemente edificante di allora. L’evolversi degli eventi proprio nella direzione da me paventata mi ha indotto infine a rompere gli indugi e a completare le mie considerazioni, pur nella consapevolezza che, per vari motivi, non potrò inviarvele o esporvele personalmente. Quando un giorno vi giungeranno forse per via indiretta, vi sorprenderà vedermi esprimere in maniera tanto esplicita, come non era mai successo in precedenza. A scuola mi sono sempre limitato a suggerirvi ogni tanto fugaci spunti provocatori e velate allusioni a idee e argomenti controversi, ma il tempo della prudenza e del temporeggiamento è ormai passato da un pezzo: è giunto il momento di cominciare a parlare senza infingimenti, chiamando, con Giordano Bruno, “la verità per verità […], le imposture per imposture, gl’inganni per inganni” [1], e dicendo liberamente – mi scuserete l’espressione, che cito dal letterato del Cinquecento Pietro Aretino – “pane al pane, e cazzo al cazzo” [2]. Se quello che scriverò vi sembrerà deludente, scriteriato, poco comprensibile o semplicemente noioso, siate indulgenti: potrete pensare che in fondo è opera di un povero “cervel pazzo”.


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1 Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Letteratura italiana Einaudi (http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t112.pdf), p. 4.

2   “Non aspettate veder la lindezza / Dell’andar petrarchevole a sollazzo,/ Ch’a ricamar fiori e viole è avvezza:/ E’ dice pane al pane, e cazzo al cazzo, / Ed abbi chi l’ha a schifo pazïenza; / Che Dio non daria legge a un cervel pazzo”. Pietro Aretino, Capitolo al duca di Mantova, in Il terzo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Giovanni della Casa, dell’Aretino, de’ Bronzini, del Franzesi, di Lorenzo de’ Medici, del Galileo, del Ruspoli, del Bertini, del Firenzuola, del Lasca, del Pazzi e di altri autori, [Giunti], in Firenze, 1723, p. 29.




2


Nella lettera di cui vi accennavo prima, Alberto Pellai si rivolgeva ad adolescenti e giovani per esortarli a restare a casa, astenendosi da comportamenti potenzialmente rischiosi per i loro cari più vulnerabili e per l’intera comunità. In quanto genitore, Pellai ammetteva con rammarico che proprio coloro i quali avevano sempre difeso il diritto alla libertà, spingendo figli e allievi – anche di fronte alla minaccia terroristica – a non farsi “chiudere nelle case, pieni di spavento”, oggi chiedono l’esatto contrario a quegli stessi ragazzi, richiamandoli alla responsabilità e al sacrificio (due parole-totem su cui tornerò più avanti). “Abbiamo dovuto chiudere le scuole e le università e per noi genitori – prosegue Pellai – voi non sapete quale dolore la cosa ci comporti […]. I nostri bisnonni e i nostri nonni questo diritto non lo avevano e lo hanno conquistato per voi. Molti di loro a scuola ci andavano fino ai 12, 13 anni. Poi tutti a lavorare. Molti di loro, al compimento del diciottesimo anno, si sono trovati obbligati ad andare in guerra” [3].


Eppure, battendosi per conquistare quei diritti di cui noi abbiamo goduto, pur se in maniera sempre precaria e parziale, quei nonni e bisnonni erano consapevoli dei gravi rischi che correvano: ciò non impedì loro di accettare la possibilità di sacrificare la loro vita (e molto spesso anche quella dei loro cari) in nome dell’aspirazione a una società più libera e fondata sui valori che poco dopo la seconda guerra mondiale, proprio nell’anno in cui in Italia entrava in vigore la Costituzione, trovarono formulazione nella Dichiarazione universale dei diritti umani. La scuola è di solito molto attenta a trasmettervi l’importanza di quei diritti e valori, nonché la memoria delle azioni di chi contribuì a renderli patrimonio comune. Ricordo la partecipazione con cui, qualche mese fa, avete ascoltato le flebili parole di Franco Leoni Lautizi, sopravvissuto nel 1944 alla strage di Marzabotto. Qualche volta vi sarà pure capitato (quando passeggiare in città o in campagna non era ancora considerato un pericoloso atto delinquenziale) di imbattervi in una lapide o un monumento che commemoravano i “martiri della libertà”, a cui sono intitolate anche molte scuole. Non credo che quelle persone, nell’affrontare allora le conseguenze delle loro scelte, abbiano pensato e predicato: “La salute prima di tutto”, come invece si sente spesso dire in questo periodo.


Ebbene, in quanto membro (seppur marginale e temporaneo) di un’istituzione che ha una responsabilità educativa nei vostri confronti, e che si mostra sempre pronta ad additarvi l’esempio di chi ha sacrificato la vita in nome della libertà, adesso voglio dirvelo chiaramente: non sarò io a mostrarvi e a insegnarvi che si può o si deve rinunciare alle libertà fondamentali al fine di preservare – per me, per voi e per le persone più deboli – non tanto la vita, ma una vera e propria non-vita come quella che ci è stata imposta e che tante (troppe) voci insistono nel presentarci quale modello non più temporaneo, bensì come prefigurazione di un futuro a cui dovremo abituarci, volenti o nolenti. Non sarà a me che un giorno dovrete chiedere conto del perché ho contribuito a lasciarvi in eredità quella che Byung-Chul Han (un filosofo tedesco contemporaneo di origini coreane) ha efficacemente definito “società della sopravvivenza”, per garantirci la quale “sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta” [4].


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[3]    Alberto Pellai, Cari ragazzi, la vita dei vostri genitori e dei vostri nonni dipende da voi, «Famiglia Cristiana», 9/3/2020 (https://m.famigliacristiana.it/articolo/lettera-ai-ragazzi-affinche-tengano-atteggiamenti-responsabili-per-proteggere-tutti-dal-coronaviruis.htm).

[4]  Byung-Chul Han, La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza, «Avvenire», 7/4/2020 (https://www.avvenire.it/agora/Pagine/Byung-Chul-Han-filosofo-coronavirus-Cina-corea-stato-di-polizia).




3


Non cessa di sconcertarmi la evidente sproporzione tra la drasticità dei provvedimenti, che non hanno precedenti storici per intensità ed estensione, e l’entità dell’attuale epidemia, insidiosa e con aspetti ancora oscuri, ma neanche lontanamente paragonabile sia ad altre del passato più o meno recente sia a tante malattie o a fattori diversi che tuttora mietono ogni anno milioni di morti nel mondo, il quale non si è mai fermato per i molto più numerosi decessi prematuri dovuti a fame, inquinamento, malaria, tubercolosi, polmonite, incidenti stradali, infezioni ospedaliere e così via. È una questione che avrebbe meritato riflessioni più attente al principio, quando invece una strada estremamente pericolosa e potenzialmente senza ritorno è stata intrapresa come se fosse una momentanea deviazione dalla normalità e una breve sfida quasi avvincente, a giudicare almeno dai messaggi in coro delle sorridenti celebrità di tutto il mondo e dalla garrula ritualità degli inni e delle canzoni a cui diversi italiani hanno aderito prontamente sin dall’inizio della detenzione domiciliare, accorrendo a comando (ma con un’adesione e un entusiasmo che sono andati progressivamente scemando) come già fecero un tempo molti nostri connazionali verso altri balconi [5]. Avevo provato a esprimere timidamente a qualcuno il timore che le conseguenze di questi provvedimenti draconiani sarebbero state peggiori del male che si pretendeva di curare, ma allora non c’era molto spazio per obiezioni disfattistiche: i compagni di reclusione ci annunciavano lieti e fiduciosi che ce l’avremmo fatta e che alla fine (vago orizzonte temporale dai contorni sempre più nebulosi) sarebbe andato tutto bene.


Qualche dubbio su questo esito felice poteva forse sorgere fermandosi per un attimo a considerare il paradosso insito nel risoluto proposito di salvare la vita (dei soggetti più a rischio) bloccando la vita (di tutti). Così facendo, si è riusciti ad assicurare a una gran parte della popolazione, nel migliore dei casi, una estensione temporale indefinita di quelle condizioni esistenziali che si desiderava risparmiare a quante più persone possibili: il senso profondo di una vita di segregazione, che per molti non offre molto di più che la mera perpetuazione delle funzioni biologiche, non è infatti così dissimile da quello di chi si ritrova costretto in un letto di ospedale. Nel caso peggiore, si è esposta sia la fascia dei soggetti a rischio sia tutti gli altri individui a danni collaterali la cui portata è stata superficialmente minimizzata o del tutto ignorata. In questo senso, il mantra mondiale #iorestoacasa, #mequedoencasa, #stayathome, #jerestechezmoi, #ichbleibezuhause e via traducendo (che tanto ricorda le formule ipnopediche di condizionamento descritte da Aldous Huxley nel Mondo Nuovo) può essere riformulato come la tenace – o, piuttosto, ferocemente ottusa – determinazione a proteggere i più deboli anche a costo di farli morire in altro modo, oltreché in nutrita compagnia. È vero che in situazioni di gravi malattie ci si può trovare purtroppo di fronte a simili scelte difficili, quando si valuta per esempio l’uso di farmaci pericolosi o sperimentali per tentare di salvare un paziente in condizioni disperate. Se però in quei casi il rischio riguarda esclusivamente il paziente stesso, oggi si sta devastando o mettendo a repentaglio la vita di milioni di persone che poco o nulla avevano da temere dal famigerato virus, con il rischio di dovere infine constatare che “l’operazione è riuscita; il paziente è morto”.


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[5]  Mi riferisco al balcone di Palazzo Venezia a Roma, dove Benito Mussolini tenne vari discorsi rimasti famosi.




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Non “andrà tutto bene”, infatti, per le tantissime famiglie rimaste (o che rimarranno prossimamente) senza soldi e senza lavoro, per chi non riaprirà più l’azienda o l’attività commerciale, per quanti sono caduti in depressione, per chi è stato vittima di gesti inconsulti da parte di individui che avevano perso la testa, per le persone intrappolate tra le mura domestiche in balia dei loro aguzzini (a dispetto dei precedenti proclami di contrasto a questo fenomeno), per chi non ha più una ragione di vita, perché ogni progetto è andato in frantumi, per coloro che soffrono di disturbi psichici e hanno subito un trattamento sanitario obbligatorio (e tra questi, come mi è capitato di testimoniare personalmente, anche bambini allontanati dalle loro famiglie), per quanti sono morti di altre patologie senza poter usufruire di assistenza sanitaria. Molti degli anziani che le misure restrittive dovevano contribuire a tutelare sono rimasti abbandonati a sé stessi, privati dell’aiuto e della presenza dei loro cari, delle cure mediche ordinarie, delle poche occasioni ricreative e di incontro che davano ancora un senso alla loro esistenza. Parecchi si sono spenti nella paura e in solitudine, qualcuno si è tolto la vita. Difficilmente sentirete parlare però dei loro suicidi e di quelli di tanti altri (in Italia e nel mondo) che non hanno retto alla disperazione, all’isolamento, alla perdita di ogni prospettiva futura: bisogna prendere atto che, per i mezzi di comunicazione ufficiali, alcuni morti sono più morti degli altri [6].


Similmente, non sembra suscitare particolare interesse chi si permette di ricordare che il confinamento determina condizioni di vita radicalmente avverse a un miglioramento generale della salute (se questo era davvero l’obiettivo primario di tutta l’operazione). La paura, la sedentarietà, spesso accompagnata da una cattiva alimentazione, la ridotta esposizione al sole, la mancanza di contatti sociali agiscono infatti in maniera depressiva sul sistema immunitario, il cui sano sviluppo in funzione preventiva dovrebbe invece essere una priorità, dal momento che la stragrande maggioranza delle vittime di COVID-19 presentava altre patologie pregresse. Al contrario, ai bambini dimenticati nelle case sono stati riconosciuti meno diritti che ai cani (con buona pace della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia); i medici che, sulla base di centinaia di studi in letteratura scientifica, osano ribadire l’importanza dell’assunzione di vitamine vengono pubblicamente ridicolizzati, e le ormai migliaia di loro colleghi i quali, grazie a un continuo scambio di informazioni e conoscenze maturate nella pratica clinica, hanno individuato degli approcci terapeutici più efficaci, rapidi, economici e meno invasivi sono tenuti lontani dai riflettori dalla scena mediatica, dove imperversano invece – e rumorosamente – gli “scienziati più scientifici di altri” con il codazzo dei loro accoliti, impegnati a intonare la ossessiva cantilena del vaccino come unico rimedio possibile. Oltre a essere un assunto del tutto aprioristico, sulla cui validità e opportunità nella circostanza attuale esistono forti riserve proprio nella comunità scientifica (anche in virtù delle esperienze maturate nel corso di precedenti epidemie come la SARS), l’idea che solo un vaccino potrà farci uscire dall’incubo sembra l’ennesima scusa truffaldina per prolungare ulteriormente i provvedimenti restrittivi, condizionandone la definitiva cessazione all’avvento di una presunta soluzione miracolosa.


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[6]  Sto parafrasando il finale della Fattoria degli animali di George Orwell.




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Nel frattempo, il progressivo ritorno alla cosiddetta normalità viene scandito da fasi transitorie che prevedono una serie infinita di limitazioni vessatorie e demenziali riguardo agli spostamenti, all’organizzazione del trasporto pubblico e degli esercizi commerciali, delle attività ricreative e persino della fruizione delle spiagge. Un apparente recupero graduale della libertà così infarcito di condizioni restrittive promette di essere ancora peggiore della fase appena trascorsa, perché il miraggio di margini più ampi di movimento sarà gravato da stravaganti disposizioni che dissemineranno di ostacoli sia l’utilizzo dei servizi essenziali sia la riapertura e il normale funzionamento delle attività produttive. Moltissime di queste, se erano a malapena riuscite finora a sopravvivere, verranno di fatto condotte al fallimento dall’impossibilità di ottemperare a norme che sembrano partorite da una fantasia perversa per negare la stessa ragion d’essere di servizi, esercizi commerciali, attività artistiche, sportive e ricreative. Senza dimenticare la scuola, in cui la didattica a distanza, già etichettata con il rassicurante acronimo DAD, non fa che acuire le disuguaglianze, pregiudica la tanto sbandierata inclusione e ci priva della essenziale componente di socialità, che è fondamentale nel processo di crescita, soprattutto per chi ha difficoltà di vario tipo. Di fronte a un disastro dalle proporzioni difficilmente valutabili, anche perché le conseguenze non si sono ancora pienamente manifestate, non solo risulta arduo convincersi che lo stillicidio di nuove misure sia volto a tutelare la salute pubblica, ma si ha la sempre più netta e sgradevole sensazione che qualcuno faccia di tutto per prolungare la crisi ritardandone la risoluzione e favorendo una progressiva assuefazione a condizioni di vita accettate inizialmente solo a patto della loro transitorietà.


Per certi aspetti torna alla mente l’esperienza di Hans Castorp, il protagonista del romanzo La montagna incantata di Thomas Mann (1924). Recatosi nel sanatorio svizzero di Davos per una visita di tre settimane al cugino, che si trovava lì ricoverato a causa della tubercolosi, il giovane Hans viene convinto dal dottor Behrens, il direttore della struttura, a posticipare il suo ritorno a casa dopo avere scoperto che anch’egli ha contratto una lieve infezione respiratoria. Nel suo caso, la malattia (che si rivelerà la stessa da cui era affetto il cugino) si manifesterà solo con sintomi blandi e costanti; ciononostante, tra aspettative di miglioramento disattese e previsioni di guarigione sempre rimandate dal dottor Behrens, il soggiorno di Hans si protrarrà (anche oltre la certificata guarigione) per sette lunghi anni, durante i quali egli si assuefarà poco per volta all’atmosfera incantata, quasi fuori dal tempo, del sanatorio. Solo l’arruolamento nell’esercito durante la prima guerra mondiale determinerà il brusco ritorno di Hans al mondo “reale”.


Naturalmente c’è molto altro in questo affascinante e complesso romanzo, che spero avrete la voglia e il coraggio di affrontare prima o poi. Per il momento potreste invece leggere un breve racconto di Dino Buzzati, Sette piani (1937), da cui lo scrittore trasse anche una commedia (Un caso clinico), poi tradotta e adattata in francese con il titolo Un cas interessant nientemeno che da Albert Camus, autore di un altro libro la cui lettura sarebbe opportuna in questo periodo: La peste (1947). Nel racconto Sette piani (che ispirò pure il film del 1967 Il fischio al naso, diretto e interpretato da Ugo Tognazzi) viene descritta la progressiva discesa in un limbo surreale dell’avvocato Giuseppe Corte (curiose coincidenze). Entrato in un sanatorio “una mattina di marzo” per curare la “leggerissima forma incipiente” di una malattia, il protagonista viene inizialmente rassicurato che “in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato”, ma in seguito, a causa di necessità contingenti, per eccesso di zelo di qualche medico e addirittura per errori o pretesti insensati, comincia a essere trasferito sempre più in basso, ai piani dove si trovano i malati più gravi. A nulla valgono le proteste dell’impotente avvocato, in preda dapprima a una “rabbia infernale”, poi a un terrore che “l’aveva sopraffatto come un bambino” (mentre “la minore serenità sembrava” intanto “aiutare la malattia”) e infine “paralizzato da uno strano torpore”.




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L’inesorabile declino di Giuseppe Corte, risucchiato in un “mondo irreale” nonostante ripetuti ma vani tentativi di resistenza, può fornire qualche spunto di riflessione sull’attuale crollo di una società che, al contrario di quel personaggio, sin dal principio è sembrata paralizzata nel complesso “da uno strano torpore”. La gran parte della popolazione – ha osservato il filosofo Giorgio Agamben – “ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le sue convinzioni religiose e politiche” [7]. In un diffuso tracollo morale, al cui infimo grado si è giunti a sottrarre i defunti all’affetto dei cari per procedere a sbrigative cremazioni, si sono manifestati per giunta comportamenti irrazionali e abietti da “caccia all’untore” che si credevano relegati nelle lontane epoche di ignoranza e superstizione vividamente descritte da Alessandro Manzoni nei capitoli dei Promessi sposi sulla peste.


Eppure, nella Storia della colonna infame (pensata inizialmente come parte integrante dei Promessi sposi, ma pubblicata in appendice all’edizione del 1840), lo stesso Manzoni aveva smentito l’idea che certe aberrazioni fossero fantasmi connaturati alla mentalità di secoli passati. “Non era l’uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era l’uomo della passione”. A suo parere, infatti, “non furon pur troppo particolari a un’epoca” le “cagioni” che portarono allora un tribunale a “farsi seguace ed emulo d’una o di due donnicciole”, sulla scorta delle cui accuse paranoiche degli innocenti furono indotti dalle torture ad accusarsi (e a chiamare in correità varie altre persone estranee ai fatti), per poi essere mutilati, scannati e bruciati. È alle “passioni pervertitrici della volontà” che dovevano essere ascritti, secondo Manzoni, “la menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura” [8]. “Il sonno della ragione genera mostri”: il pittore Francisco Goya ce lo ha ricordato nella sua famosa incisione realizzata negli ultimi anni del Settecento. E proprio a una soppressione dell’equilibrio e del giudizio sembrano ispirati gli atteggiamenti delatori e lo scriteriato accanimento con cui sia privati cittadini, improvvisatisi zelanti tutori della legge (o più spesso di semplici decreti amministrativi), sia rappresentanti delle istituzioni e del giornalismo hanno braccato, anche a favore di telecamere, persone colpevoli di appestare l’aria svolgendo attività motoria o passeggiando in luoghi isolati. Nulla di nuovo o sorprendente “giacché, quando s’è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino” [9].


Timori irrazionali che si diffondono come una sconcertante epidemia di paura, fomentata dalla narrazione mediatica e dalla estenuante serie di astrusi provvedimenti restrittivi, determinano l’adozione e la passiva accettazione di misure la cui razionalità appare difficilmente comprensibile. Ne è un esempio l’obbligo generalizzato di indossare le mascherine, prima insufficienti anche per il personale sanitario e poi, quando ormai ce ne sarebbe meno bisogno, imposte a tutta la popolazione, talvolta in maniera indiscriminata e in situazioni in cui tale protezione è controproducente o del tutto inutile, se non forse in funzione apotropaica [10] (per la quale sarebbero sufficienti oggetti scaramantici o devozionali, a seconda delle preferenze) e di costante riaffermazione di uno stato di emergenza e di tensione. La sola visione dei propri simili che si aggirano all’aperto grottescamente mascherati è profondamente deprimente in quanto rappresentazione concreta ed emblematica di una società imbavagliata, senza voce, remissiva, docilmente sottomessa e spersonalizzata, nella quale l’altro, privato dei suoi caratteri distintivi, è percepito come una mina vagante da schivare ed è tenuto sospettosamente a distanza. Condizionamenti simili agiscono in profondità nell’animo umano e hanno una sopravvivenza inerziale difficile da dissolvere, il che costituisce un altro grande rischio dell’approccio oggi adottato troppo avventatamente nel consenso generale.


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[7] Giorgio Agamben, Riflessioni sulla peste, «Quodlibet», 27/3/2020 (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste). Dello stesso autore cfr. Una domanda, «Quodlibet», 13/4/2020 (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda).

[8]  Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, con le illustrazioni di Francesco Gonin, introduzione di Franco Cordero, premessa al testo, bibliografia e note di Gianmarco Gaspari, Milano, Fabbri Editori, 1997, pp. 149, 120, 76.

[9]    Ivi, p. 120.

[10]  Utile cioè ad allontanare un’influenza maligna.




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Una maggiore dose di prudenza e discernimento avrebbe inoltre dovuto indurre a considerare che l’inusitato paradigma della quarantena totale e del distanziamento sociale si presta a essere riproposto ogniqualvolta si registri un nuovo repentino aumento dei contagi, un eccessivo afflusso nelle strutture ospedaliere (evento regolarmente verificatosi in molte di esse negli inverni passati) o la prevedibile comparsa di nuovi virus più o meno noti. Siamo pronti ad accettare che in ciascuno di questi casi saranno nuovamente dei sedicenti esperti (proprio coloro che nell’emergenza attuale hanno sostenuto tutto e il contrario di tutto, incorrendo anche in grosse cantonate) a decidere, naturalmente per il nostro bene, quando, con chi, entro quali limiti e per quanto tempo possiamo muoverci? Ci rassegneremo all’idea che solo consentendo a farci inoculare un vaccino approntato frettolosamente (e sulla cui efficacia e sicurezza troppi occhi vengono chiusi) potremo elemosinare l’agognato lasciapassare per una libertà sempre e comunque provvisoria, perché passibile di essere revocata alla prossima emergenza? Oppure ammetteremo di essere sottoposti, ancora per il nostro bene, a una massiccia sorveglianza fisica e digitale a senso unico, perché la trasparenza funziona solo dall’alto verso il basso?


Il controllo sociale non suscita particolari obiezioni in stati come la Cina, dove ogni cittadino/suddito è sottoposto per esempio a un costante processo di valutazione che, in base ad acquisti, letture, opinioni politiche, frequentazioni e comportamenti nel mondo reale e virtuale, si sostanzia in un punteggio sociale. Tanti punti possono dare diritto a bonus quali mutui agevolati o visti di viaggio, mentre la discesa sotto una certa soglia mette addirittura a repentaglio il posto di lavoro [11]. Se determinati modelli sono comunemente accettati e praticati in alcune parti del mondo, la loro trasposizione integrale nelle democrazie occidentali risulta piuttosto stridente per una mentalità abituata ad associarli piuttosto a scenari tipici della produzione letteraria e cinematografica di fantascienza distopica. Forse è presto per cimentarvi con il celeberrimo romanzo 1984 di George Orwell, che ha immortalato il personaggio del Grande Fratello, fantomatico controllore di tutto e tutti, ma di sicuro sarà gradevole e istruttivo rivedere in questo periodo il film The Giver, o meglio ancora leggere il libro da cui è tratto (in italiano Il donatore) e i successivi tre della quadrilogia scritta da Lois Lowry: La rivincita (Gathering Blue), Il messaggero e Il figlio.


Varie questioni sempre attuali, su cui raramente ci si sofferma a pensare, possono essere messe a fuoco con maggiore consapevolezza grazie alla prospettiva estraniante offerta da questa e altre opere di fantascienza distopica. In molte di esse, non a caso, trovate spesso evidenziate le insidie di regimi e sistemi sociali nei quali gli individui rinunciano anche volentieri a tante libertà in cambio dell’appartenenza a un ordine apparentemente rassicurante, che tuttavia a noi lettori o spettatori appare ben lungi dall’essere desiderabile perché in fondo privo di umanità. È questo il caso, come ricorderete, della società emotivamente e linguisticamente sterilizzata dipinta in The Giver, un mondo in bianco e nero, edulcorato e ipercontrollato che dovrebbe far riflettere sulle possibili derive alienanti e autoritarie dell’ossessione asettica di cui siamo attualmente pervasi. L’istintiva paura del contagio e della morte si presta infatti a essere manipolata ed esasperata, con il rischio di indurre un’incauta accettazione di regole e modelli sociali illusoriamente risolutivi e consolatori.


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[11]  V. Han, La società del virus cit.




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Oggi, in nome di un rischio sanitario dalle dimensioni sopravvalutate rispetto a quelle, invece trascurate, dei danni sociali ed economici derivanti dalle misure emergenziali, si è assistito a una massiccia e convinta abdicazione a una serie di libertà in una misura che non ha precedenti neanche durante le guerre mondiali, quando pure alcuni paesi erano governati da regimi totalitari. Di fronte a questo spettacolo, continuano a risuonarmi nella mente le parole pronunciate 58 anni fa da Aldous Huxley, l’autore del romanzo Il Mondo nuovo (1932) che, insieme con 1984 di George Orwell, è considerato il caposaldo della letteratura distopica novecentesca. Vorrei qui riportarvi alcuni passaggi della conferenza tenuta da Huxley il 20 marzo 1962 al Berkeley Language Center, dove lo scrittore preconizza le derive di quello che è stato poi definito anche come “potere morbido” (soft power [13]). È un brano piuttosto lungo, ma vale la pena di citarlo per esteso:


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[12] La trascrizione completa della conferenza (in inglese) si può leggere sul sito http://informationclearinghouse.info/article24712.htm. Mi sono avvalso della traduzione in italiano di Gianluca Freda, alla quale ho applicato solo marginali modifiche.

[13] Il  concetto di soft power fu coniato verso la fine degli anni Ottanta dal politologo americano Joseph Samuel Nye.




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"Oggi credo che ci troviamo di fronte a ciò che potrebbe essere definita la rivoluzione definitiva, l’ultima rivoluzione, quella in cui l’uomo può agire in modo diretto sulla mente e sul corpo dei suoi simili. Inutile dire che la possibilità di esercitare un certo tipo di azione diretta sulla mente e sul corpo degli esseri umani è esistita fin dall’alba dei tempi. Ma era generalmente di natura violenta […]. Ma come diceva, credo, Metternich molti anni fa, con le baionette si può fare di tutto tranne che sedercisi sopra. Se si vuole controllare una popolazione per un lungo periodo di tempo occorre che vi sia una certa misura di consenso, essendo difficile che il terrorismo puro e semplice possa funzionare a tempo indefinito. Esso può anche funzionare per molto tempo, ma io credo che prima o poi sia necessario introdurre un elemento di persuasione, un elemento che spinga le persone ad essere consenzienti a ciò che gli viene fatto.


Io penso che la natura della rivoluzione definitiva che abbiamo di fronte sia precisamente questa: siamo sul punto di sviluppare una serie di tecniche che consentiranno all’oligarchia al potere – che è sempre esistita e probabilmente sempre esisterà – di spingere le persone ad amare la propria schiavitù. Questa è, io credo, una rivoluzione di malvagità definitiva, ed è un problema al quale mi sono interessato per molti anni e su cui ho scritto 30 anni fa un romanzo, Mondo Nuovo, che descrive una società in cui vengono utilizzati tutti gli strumenti disponibili – e alcuni degli strumenti che allora immaginavo sarebbero stati disponibili nel futuro – prima di tutto per standardizzare la popolazione, appiattendo le fastidiose diversità tra gli esseri umani, per creare, diciamo così, modelli di esseri umani prodotti in serie e organizzati in un sistema di classi basato sulla conoscenza scientifica. Da allora mi sono interessato sempre di più a questo problema e ho notato con crescente raccapriccio che un gran numero delle previsioni che sembravano pura fantasia, quando le feci 30 anni fa, si sono poi realizzate o sono sul punto di realizzarsi. Un gran numero delle tecniche di cui parlavo sembrano essere già utilizzate. E sembra che vi sia una corsa generale verso questa rivoluzione definitiva, un sistema di controllo attraverso il quale è possibile far piacere alla gente una situazione che, secondo i normali standard, non dovrebbe piacerle affatto. Questo “apprezzamento della schiavitù” […] è in evoluzione da anni.


Orwell scrisse il suo libro [1984] tra il 1945 e il 1948, nel momento in cui il regime di terrore stalinista era al suo apice e subito dopo il crollo del regime hitleriano. Il suo libro, per il quale ho una grande ammirazione […], mostra una proiezione nel futuro […] di una società in cui il controllo è interamente esercitato con il terrore e con continui attacchi alla mente e al corpo degli individui. Il mio libro, invece, fu scritto nel 1932, quando esisteva solo una forma di dittatura moderata, quella di Mussolini […]; io ero perciò libero, in modi in cui Orwell non poteva esserlo, di immaginare altri metodi di controllo, metodi non violenti. Sono incline a pensare che le dittature scientifiche del futuro – e io credo che ci saranno dittature scientifiche in molte parti del mondo – saranno più vicine allo schema di Mondo Nuovo che a quello di 1984. Non certo perché i dittatori scientifici abbiano velleità umanitarie ma semplicemente perché lo schema di Mondo Nuovo è molto più efficiente dell’altro.


Sempre che si riesca a convincere le persone a dare il proprio consenso allo status in cui vivono. Uno status di servitù, in cui le loro diversità vengono annullate e asservite ai metodi di produzione di massa a livello sociale; se si riesce a fare questo, allora si otterrà, probabilmente, una società molto più stabile e duratura. Una società controllabile molto più facilmente di una in cui il controllo sia garantito solo da manganelli, plotoni d’esecuzione e campi di concentramento, [anche se è] inutile dire che del terrorismo non ci libereremo mai, esso troverà sempre il modo di tornare alla superficie. Io credo che a mano a mano che i dittatori diventeranno più scientifici, sempre più preoccupati del perfezionismo tecnico, del perfetto modo di governare la società, essi si interesseranno sempre più delle tecniche che ho immaginato e descritto – a partire da realtà esistenti – in Mondo Nuovo. Mi sembra perciò che questa rivoluzione definitiva non sia molto lontana, che un gran numero di tecniche per realizzare questo tipo di controllo sia già qui, e che resti solo da vedere quando, dove e da chi esse saranno applicate per la prima volta su larga scala".




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Per tornare a orizzonti più vicini e concreti, lasciando da parte le fughe in avanti verso eventuali scenari distopici, non credo si sia prestata attenzione al concreto rischio della perdita completa di orizzonti e capacità progettuali di una società che ammette di essere sottoposta a restrizioni e chiusure intermittenti, una possibilità insita nel paradigma della quarantena totale. Per questa via, si sarà costretti a scegliere tra un ulteriore aumento delle disuguaglianze dagli esiti esplosivi, lasciando naufragare chi non può permettersi progetti lavorativi ed esistenziali in grado di sopravvivere a periodici blocchi, oppure l’adozione sistematica di forme assistenziali a favore della stragrande maggioranza della popolazione, la cui costitutiva incapacità di conseguire e mantenere l’indipendenza economica dovrà essere fatalisticamente accettata come un dato di fatto ineliminabile. Alla luce di quanto detto, non dovrebbe destare “maraviglia che chi s’è messo in una strada falsa, arrivi a due che non son buone, né l’una né l’altra” [14].


Ma non è ancora tutto: risulta infatti più facilmente evidente che la sequela di stati di emergenza sempre più ravvicinati, tanto da approssimarsi alla normalità, rappresenta un ottimo strumento per chi intende procedere a tappe forzate nel processo di progressivo svuotamento sostanziale dei sistemi democratici sulla base dell’assunto che un “eccesso di democrazia” nuoce alla governabilità, come fu programmaticamente dichiarato nello studio The Crisis of Democracy, realizzato nel 1975 su richiesta della Commissione Trilaterale da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. “Non è detto che un valore che sia normalmente buono in se stesso [la partecipazione democratica ai processi politici] venga ottimizzato allorché venga massimizzato”, si legge nella sezione relativa agli Stati Uniti firmata da Samuel Huntington, autore della famosa teoria dello “scontro delle civiltà”. Secondo lo studioso americano, esistono infatti “limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica”, il cui “funzionamento efficace […] richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”. In caso contrario, si corre “il pericolo di sovraccaricare il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità. È necessario quindi sostituire la minore emarginazione di alcuni gruppi con una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi” [15].


Nei decenni successivi al manifesto, in effetti, le conquiste politiche e sociali conseguite durante il cosiddetto “trentennio glorioso” che seguì la seconda guerra mondiale (1945-1975) hanno subito una progressiva erosione ad opera di una vera e propria controffensiva di stampo neo-aristocratico, la quale si è valsa di strumenti a volte più appariscenti e violenti, altre volte più subdoli e suadenti. Le generazioni dei vostri genitori e nonni ricordano senz’altro l’incertezza e la paura degli “anni di piombo”, caratterizzati dalla “strategia della tensione”, e voi stessi ne avete vissuto da piccoli una nuova stagione su scala globale, quella del terrorismo islamico, abilmente sfruttato da alcuni gruppi di potere per restringere spazi di libertà e di riservatezza mediante leggi e provvedimenti ispirati al famoso PATRIOT Act americano. In questa prospettiva, risulta davvero singolare che chi a quel tempo, in nome del diritto alla libertà, non ha voluto cedere di fronte alla minaccia terroristica (come rivendicava Pellai nella sua lettera), cominci adesso a evocare a sproposito scenari di guerra per predicare la stessa logica del “chiudersi in casa, pieni di spavento”, quando dovrebbe risultare ovvio che la risposta globale all’attuale emergenza, facendo leva su queste paure, offre un’occasione imperdibile alle forze intente a circoscrivere proprio quel diritto alla libertà che “niente avrebbe dovuto piegare” [16]. Sorprende allo stesso modo che persone solitamente così sensibili alle presunte insidie di perpetui rigurgiti fascisti e nazisti non abbiano nulla da obiettare all’odierno insorgere di regimi post-democratici di polizia sanitaria.


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[14]  Manzoni, Storia della colonna infame cit., p. 147.

[15] Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington, Joji Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, prefazione di Giovanni Agnelli, introduzione di Zbigniew Brzezinski, Milano, Franco Angeli, 1977, pp. 110, 109.

[16] Pellai, Cari ragazzi cit.




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Nell’ambito del progetto di lungo corso volto a rimettere in discussione i diritti acquisiti, la tremenda accelerazione della “guerra globale al terrorismo” si è rivelata comunque meno efficace della leva economica, uno strumento ben più duraturo e capace di sgretolare progressivamente, spesso con il consenso della maggioranza dei cittadini, sia lo stato sociale sia l’autonomia della sfera politica, ormai gravemente depotenziata a favore di quella finanziaria e tecnocratica. Un costante e pervasivo indottrinamento di massa ha elevato una fra le varie teorie economiche (quella neoliberista) al rango di scienza pura e paradigma unico, e i suoi corollari sono diventati articoli di fede di una nuova religione laica, dalla cui adesione non poteva esimersi chi aspirasse alla legittimazione e al pubblico riconoscimento in ambito accademico e politico. A poco a poco i dissidenti e gli eretici sono stati emarginati e derisi, se non addirittura assassinati: è il caso per esempio del primo ministro svedese Olof Palme, nel 1986, e del presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, nel 1987. Qualcun altro è invece scomparso misteriosamente, come l’economista keynesiano Federico Caffè (anch’egli, guarda caso, nel 1987), importante maestro di generazioni di economisti italiani tra i quali anche Mario Draghi, poi allontanatosi dalla lezione del suo mentore.


È difficile rendersi conto di quanto profondamente sia stata scolpita la dottrina neoliberista nella coscienza collettiva se non pensando a quanti dei suoi principi e deduzioni che ci sono stati ripetuti all’infinito, e che vengono dai più considerati semplici massime di buon senso o assiomi economici elementari, sono in realtà assunti arbitrari e confutabili, strumentalmente propagandati per sostenere scelte politiche di natura conservatrice o reazionaria. Siamo cresciuti imparando, ad esempio, che lo stato è come una famiglia e che non può spendere più di quanto incassa dalle tasse (le quali servono appunto a finanziare la spesa pubblica); la moneta è una risorsa scarsa ed è bene che non ce ne sia troppa in circolazione, altrimenti genera l’inflazione funesta; il settore privato è più efficiente del pubblico; le banche centrali devono essere indipendenti dal potere politico per impedire che la spesa dello stato alimenti la corruzione nonché il debito pubblico, uno dei mali assoluti da combattere, tanto è vero che i tedeschi usano la stessa parola – Schuld – per definire il debito e la colpa.


La lista potrebbe proseguire a lungo, e su ciascuno di questi punti sarebbe opportuno svolgere intere lezioni, ma per il momento vorrei soltanto farvi notare che, in misura diversa nei vari stati, questi principi hanno guidato come un “pilota automatico” (espressione usata, non a caso, da Mario Draghi quand’era a capo della Banca Centrale Europea) le scelte politiche dei governi di ogni colore, ormai ridotti a meri facilitatori di automatismi stabiliti e avviati in altre sedi. Da poche altre parti, tuttavia, il fenomeno è stato così evidente come nei paesi della cosiddetta UE (che sarebbe più corretto definire DE [17]; gli ultimi eventi ne hanno dato l’ennesima lampante dimostrazione), il cui assetto attuale è costitutivamente imperniato sul dogma del rigore dei conti pubblici. È su questo altare che gli austeri sacerdoti dell’economia e i loro discepoli ci hanno chiamati a tributare sacrifici a nuove divinità, le cui effigi erano parametri economici scientificamente e storicamente infondati, oltreché svincolati dal conseguimento del benessere collettivo. Tante volte i cittadini e i loro rappresentanti sono stati esortati alla “responsabilità” e al “sacrificio” per “rassicurare i mercati promettendo rigore”: lo scriveva per esempio il «Sole 24 Ore» il 30 maggio 2011 [18], sei mesi prima dell’avvento del governo Monti, invocato dal medesimo giornale con il famigerato “Fate presto”. Tutti possono giudicare se nel nostro e in altri paesi (come la Grecia, esempio nefando di altre ignobili operazioni draconiane tecnicamente riuscite, in seguito alle quali il paziente è morto) questa responsabilità e questi sacrifici si siano o meno tradotti in una diminuzione delle disuguaglianze sociali, in un aumento dell’occupazione, in miglioramenti dei salari, delle pensioni, del sistema scolastico e di quello sanitario, del quale abbiamo potuto toccare ora con mano quanto la capacità di reazione a eventi imprevisti sia stata indebolita negli ultimi decenni.


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[17]    Disunione Europea.

[18] “Serve una coalizione di partiti che abbia voglia di prendersi la responsabilità – e mettere la faccia – sui prossimi sacrifici degli italiani […]. C’è davvero la necessità e l’urgenza dell’Italia di rassicurare i mercati promettendo rigore”. Lina Palmerini, Governo stretto tra tagli alla spesa e tasse più basse, «Il Sole 24 Ore», 30/5/2011 (https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-30/governo-stretto-tagli-spesa-063749.shtml).




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La crisi in corso sta impietosamente disvelando quanto abbiamo sospirato invano (per parafrasare la terzina petrarchesca riportata in apertura) rincorrendo “cose dubbiose”, cioè un sistema di dottrine, regole, obiettivi e istituzioni che sarebbe ormai tempo di consegnare al posto di loro competenza: quello degli orrori della storia. Riconosco di avere preso in prestito questa espressione dall’economista ed ex funzionario statale Antonino Galloni, altro allievo di Federico Caffè, allo spirito del cui insegnamento si è sempre mantenuto fedele. Di recente, Galloni ha sottolineato l’importanza epocale del crollo di quella che veniva considerata “la suprema verità finanziaria”, vale a dire la scarsità delle risorse monetarie. Questa convinzione ha potuto resistere fino a oggi in virtù di una “magia di contabilità”, un mero artificio mediante il quale le banche centrali hanno finora tenuto nascosto il meccanismo di creazione della moneta, che avviene in effetti “a costo zero, soprattutto dopo lo sganciamento della moneta stessa dall’oro” (e a fortiori quando la stragrande maggior parte della moneta circolante è di tipo elettronico, cioè rappresentata da semplici numeri su un computer) [19].


Le azioni intraprese da alcuni stati (purtroppo non quelli dell’Eurozona) per fronteggiare l’attuale crisi hanno fatto però cadere la maschera che celava la semplice verità: la moneta non è una risorsa finita e limitata, come del resto dovette implicitamente ammettere lo stesso Mario Draghi in una conferenza stampa del 2014, quando alla candida domanda se la BCE “potesse mai finire i soldi”, rispose imbarazzato: “Tecnicamente no. Non possiamo finire i soldi. Abbiamo ampie risorse per fare fronte a tutte le emergenze” [20]. Lo stesso Draghi cominciò a darne dimostrazione pratica mediante lo strumento del Quantitative Easing, con il quale la BCE ha fino a oggi creato, semplicemente digitandoli su una tastiera, oltre due miliardi di euro, di cui però solo un’infima parte è poi finita all’economia reale. La scarsità della moneta non è quindi un dato di natura, ma il frutto di precise scelte politiche. Siamo stati sempre abituati a dover commisurare le necessità di spesa pubblica alla disponibilità di risorse finanziarie: abbiamo sentito ripetere fino alla nausea la domanda relativa alle coperture di determinati interventi pubblici, per i quali vale l’eterno problema del “dove trovare i soldi”. Nella società attuale, non più afflitta dal problema della penuria, sarebbe ora di invertire finalmente il paradigma, superando la questione limitante della quantità di soldi di cui necessitiamo per individuare invece liberamente ciò di cui abbiamo bisogno, perché i soldi per realizzarlo non mancheranno, con l’unico limite costituito dal raggiungimento del pieno utilizzo delle capacità produttive del sistema.


Ci è toccato in sorte di vivere un momento di svolta epocale, che come tutti i cambiamenti radicali non sarà una tranquilla passeggiata, ma riserverà sicuramente altre sofferenze: del resto l’etimologia stessa della parola “crisi” rimanda sia alla fase decisiva e culminante di una malattia sia al significato di scelta, decisione, perché sono proprio i momenti di crisi a rivelarci strade inesplorate e nuove possibilità di evoluzione, nel bene e nel male. Se non ci si accontenta di essere semplici spettatori inermi, spetterà a ciascuno “distinguere e giudicare” (in greco κρίνω [krínō], da cui deriva κρίσις [krísis]) se e quali dei nuovi modelli sociali saranno volti a benessere e felicità diffusi oppure alla degradazione dell’umanità, magari sotto le mentite spoglie di un ordine rassicurante. È esattamente questo il messaggio trasmesso da Aldous Huxley a conclusione della conferenza che ho citato prima:


"Il nostro compito è di essere consapevoli di ciò che sta accadendo e di usare la nostra immaginazione per capire cosa potrebbe succedere, in che modo si potrebbe approfittarne e infine, se possibile, di provvedere affinché gli immensi poteri che oggi possediamo grazie a queste scoperte scientifiche e tecnologiche vengano usati a beneficio dell’umanità e non per la sua degradazione".


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[19] “Al passivo dello stato patrimoniale veniva messo il valore nominale dell’emissione monetaria, all’attivo i titoli; siccome i due valori si eguagliavano (interessi a parte, che potevano andare nel conto profitti e perdite), l’operazione si annullava, cioè si nascondeva”. Antonino Galloni, Il virus smaschera il rigore. Ma come affrontarlo?, «Libreidee», 25/3/2020 (https://www.libreidee.org/2020/03/galloni-il-virus-smaschera-il-rigore-ma-come-affrontarlo/).

[20] Mario Draghi, conferenza stampa tenuta a Francoforte sul Meno il 9/1/2014 (https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is140109.en.html).




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Non vi sto esortando a lanciarvi adesso in chissà quali atti rivoluzionari ed eclatanti, perché la rivoluzione più potente è proprio quella meno appariscente, che si svolge nell’intimo di ciascuno acquisendo e maturando consapevolezza, un obiettivo a cui si oppone chi vorrebbe decidere al posto nostro quali sono le fonti di informazionaffidabili, le verità degne di fede e le eresie da estirpare e silenziare. La crescita di consapevolezza non può avvenire se ci si contenta di restare fanciulli in perenne attesa di risposte dai cosiddetti esperti e “tecnici”, siano essi economisti, scienziati o mediciai quali anche una classe politica a corto di autorevolezza (che rischia di essere compensata con l’autoritarismo) delega sempre più la responsabilità delle scelte che le competonoLa responsabilità che spetta invece a tutti noi, come ha ricordato recentemente lo storico ed ex giudice della Corte Suprema britannica Jonathan Sumption, è quella di “mantenere  il senso delle proporzioni” soprattutto nei momenti in cui “molti stanno perdendo il loro”, anche perché gli scienziati “non sono più qualificati di noi per dire se valga la pena di mettere sottosopra il nostro mondo e di infliggergli gravi danni a lungo termine” [21].


Oltre alle pericolose derive delle norme emergenziali, è necessario dunque contrastare l’espansione di una “mentalità dispotica che vorrebbe neutralizzare dubbi e domande”. Lo ha ribadito Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, in un articolo dall’eloquente titolo Non arrendiamoci a “tacere e obbedire”, nel quale ricorda che “non è un male fare le pulci al vero se, sosteneva J. S. Mill, il vero si atteggia a dogma – se poi è un ‘vero’ in costruzione, allora i dubbi e le domande sono perfino un bene” [22]. La ricerca, la selezione e la critica delle fonti è un’operazione che ognuno è libero di compiere individualmentevalutando personalmente notizie, opinioni e studi di qualsiasi disciplinada cui d’altronde emergono sempre responsi tutt’altro che univoci e risolutivi, bensì una polifonia di voci molto diverse e spesso dissonanti, il che è sorprendente solo per chi coltiva un’idea dogmatica e caricaturale della scienza in base alla quale i suoi rappresentanti (ma solo quelli “giusti”) sono anche eletti a suprema guida politica, culturale, morale e spirituale.


Si assiste in questo periodo a una uniforme narrazione mediatica, sostenuta da innumerevoli spot pubblicitari dai toni edificanti e a tinte idilliache, che presenta ldiscutibile e accidentata strada intrapresa come l’unica possibile e quindi implicitamente anche la migliore, in quanto frutto della decisione di menti superiori appartenenti all’empireo scientifico ortodosso (da cui provengono severi ammonimenti sulle inevitabili catastrofi derivanti da eventuali scelte diverse)In questo contesto sembra di sentire risuonare le note parole del dottor Pangloss, insegnante di “metafisico-teologo-cosmoscemologia” (e caricatura del filosofo Leibniz [23]il quale, nel romanzo satirico di Voltaire Candido, o l’ottimismo (1759), suole ripetere al suo giovane allievo, pur tra mille peripezie e sciagure, che nel “migliore dei mondi possibili […] le cose non possono essere altrimenti: giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine […]. Perciò, quanti hanno asserito che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio” [24].


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[21] Jonathan Philip Chadwick Sumption, Se continua così la cura sarà la minaccia più pericolosa per l’umanità, «Milano Finanza», 6/4/2020 (https://www.milanofinanza.it/news/lord-sumption-se-continua-cosi-la-cura-sara-la-minaccia-piu-pericolosa-per-l-umanita-202004062049205118). Articolo originale: Coronavirus Lockdown: WAre SAfraid of Death, NOne Even Asks Whether this ‘Cure’ IActually Worse, «The Sunday Times», 5/4/2020 (https://www.thetimes.co.uk/article/coronavirus-lockdown-we-are-so-afraid-of-death-no-one-even-asks-whether-this-cure-is-actually-worse-3t97k66vj).

[22] Nadia Urbinati, Non arrendiamoci a “tacere e obbedire”, «HuffPost», 18/3/2020 (https://www.huffingtonpost.it/entry/non-arrendiamoci-a-tacere-e-obbedire_it_5e723a09c5b6eab779406276.

[23] Gottfried Wilhelm von Leibniz è un importante filosofo e matematico vissuto tra la seconda metà del Seicento e l’inizio del Settecento.

[24] Voltaire, Candido, o l’ottimismo, cap. I (https://it.wikisource.org/wiki/Candido/capitolo_1).




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Le parole e le idee hanno l’enorme potere di creare letteralmente la realtà in cui le persone vivono apparentemente da attori protagonisti, ma più spesso come marionette che sono “agite”, “pensate” e “parlate” per mancanza di consapevolezza, per pigrizia (perché è molto comodo rimanere “minorenni a vita”) oppure per paura, come ricorderete dalle battute finali pronunciate da Christof, il creatore dello show televisivo in cui è cresciuto TrumanDopo avere quindi impedito che quelle docili e placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno ingabbiate”, i tutori “che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza su di loro” hanno anche avuto cura di descrivere “a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole”. Sono le parole del filosofo Immanuel Kant, che nella sua Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo (1784) invitava a uscire dallo “stato di minorità” e ad avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza “senza la guida di un altro” [25]. 


Di certo la strada per diventare “veri uomini” (Tru[e]man) non è affatto semplice: prevede cadute, come per ogni bambino che impara a camminare da solo; conduce verso mete ignote (e si sa che l’ignoto spaventa, appare oscuro e minaccioso come lo spazio che attende Truman oltre l’uscita) e non offre alcuna garanzia di esiti felici e appaganti. Non di rado, anzi, capita di andare incontro all’incomprensione e alla riprovazione di quelli che il poeta Eugenio Montale definì “gli uomini che non si voltano” [26], con un implicito riferimento al mito della caverna, narrato dal filosofo greco Platone nel settimo libro della Repubblica e fonte d’ispirazione per un’infinità di opere letterarie e cinematografiche, tra cui quel Truman Show tanto amato da alcuni di voiVale dunque la pena di avventurarsi fuori dal grembo della caverna in cui viviamo incatenati, convinti che la verità coincida con le ombre che fissiamo sul muro di fronte a noi? Per chi si è voltato, la questione prescinde da una valutazione delle possibilità di successo e di gratificazione che se ne possono ricavare o dai cambiamenti che si spera di innescare nel mondo, per essere fondata piuttosto su una profonda convinzione del senso intrinseco dell’atto in sé. D’altronde, per quanto ne sappiamo non si può neanche scegliere a priori se vivere o meno in base a ciò che prima della nascita si prevede di conseguire durante l’esistenza, della quale si tenta invece di rintracciare direzione e significato attraverso quotidiani tentativi ed errori. precisamente nell’attuale crisi di una società che tanto più con orrore irrazionale cerca di allontanare la morte, rimuovendola come un tabù o celandola come una ignominiosa sconfitta, quanto meno sembra riuscire a trovare senso alla vita (le cui normali condizioni sono state infatti sospese ex abrupto senza incontrare significative resistenze), il difficile cammino di libertà e consapevolezza è proprio ciò che può aiutare a scoprire il senso e la dignità dell’esistenza umana.


(Davide Romano, 5 maggio 2020)


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È stato riproposto anche sul sito Sinistrainrete.


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[25] Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo, traduzione dall’originale tedesco di Francesca Di Donato; revisione di Maria Chiara Pievatolo (https://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s04.xhtml).

[26] “Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore di ubriaco.// Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto/ alberi case colli per l’inganno consueto./ Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”. La poesia è tratta da Ossi di seppia.

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