Buon viaggio...
Con grande euforia velata di paura per il lungo viaggio che aspettava me ed i miei compagni di avventura, il 13 gennaio 2019 il grande giorno era finalmente arrivato. Partenza dall'aeroporto di Malpensa (Milano) con davanti tre scali e tante ore di attesa tra un volo e l'altro, ma soprattutto più di 10 mila chilometri di distanza dalla destinazione.
Tra una chiacchierata ed un'altra, alternanti fasi di dormi-veglia, la lettura di qualche pagina di libri appositamente portati per ammazzare il tempo, l'ascolto di qualche nota classica rilassante e qualche spuntino, la distanza si faceva sempre più breve fino al fatidico e tanto atteso atterraggio in terra giapponese. Sceso dall'aereo una misteriosa energia mi ha investito assieme ad un'aria tiepida ed umida tipica del clima tropicale.
Era fatta mi trovavo a Naha capoluogo dell'isola.
Grazie ad una dormita rigenerante la mattina seguente ci siamo potuti avventurare nelle strade di Naha e grazie alla nostra guida, (senza la quale saremmo stati persi) Emanuel, che era alla sua settima visita in questa terra, abbiamo potuto iniziare a prendere dei punti di riferimento che ci sarebbero tornati utili durante il nostro soggiorno. Un'altra persona che ci ha aiutato e con la quale abbiamo passato diverse ore in compagnia, è un altro italiano, che però vive da alcuni anni sull'isola, Pietro, il suo nome, è stata una bella conoscenza così come un altro ragazzo originario dello stivale, suo amico ed anch'esso momentaneamente residente a Naha. Gino, così lo chiamano gli amici.
Grazie a queste due persone abbiamo avuto modo di conoscere anche alcune realtà locali che solo il tempo può far emergere e che gli occhi di un nuovo arrivato difficilmente notano. Le ore di questo primo ed intero giorno giapponese son volate tra una scoperta e l'altra e una volta fatta la conoscenza della strada principale della città, Kokusai-dori e del mercato di Makishi ci avvicinavamo sempre di più al primo contatto con la pratica del karate in un dojo tradizionale di Okinawa.
Ancora momentaneamente sprovvisti di bicicletta, mezzo molto utile per girare la città ma abbastanza raro, ci siamo incamminati verso il dojo del maestro con il quale ci saremmo allenati durante questo viaggio di studio. Dopo tre quarti d'ora di cammino a passo sostenuto arrivammo al dojo, una bella stanza tradizionale, con un piccolo bagno, sottostante l'abitazione del maestro. Tempo di cambiarsi e via subito in mezzo alla "mischia". L'impatto è stato diretto, soprattutto con il capo-istruttore del dojo che uno ad uno, in modo fermo e apparentemente rude, ma in realtà segnale di interesse nell'insegnarci, ci ha corretti cercando principalmente di farci vincere l'ansia mentale e la rigidità fisica.
Ciò che mi ha colpito maggiormente fin dal primo istante è stata la costante sensazione di essere in un luogo dove attraverso il sudore e l'aiuto reciproco veniva portata avanti una tradizione antica ed oltre a questo ho per la prima volta avvertito la mia mente libera da qualsiasi pensiero e totalmente concentrata sulla pratica.
Voglio dedicare un approfondimento, prima di procedere con il racconto del viaggio, al modo in cui si svolge una sessione di allenamento sull'isola dove è nato il karate perché penso possa essere fonte di ispirazione per chi pratica ed insegna quest'arte e anche per far riflettere coloro che hanno appreso e a loro volta insegnano questa disciplina con un modo di fare militaresco, che sinceramente da quello che ho potuto vedere con i miei occhi, è lontano dalla realtà. Ovvio, che con questo non voglio mettere in discussione metodi di allenamento, né tanto meno insegnanti ma voglio semplicemente rendere noto un sistema diverso da cui son rimasto colpito.
P.S.
Se non siete interessati alla parte tecnica legata alla pratica marziale, saltate alla parte di testo in cui riprendo a raccontarvi del viaggio...
Eccovi la mia esperienza:
Un allenamento "tipo" ad Okinawa
Si lasciano le calzature con le quali si è arrivati già girate nella direzione dell'uscita cosa comune in ogni ingresso, dalle case ai luoghi pubblici (è buona norma ed educazione togliersi le scarpe anche prima di entrare in un camerino dentro un negozio per provare dei vestiti). Si procede dunque ad entrare sul pavimento d'allenamento scalzi. Si può arrivare già vestiti con il karate-gi (non kimono come ancora molti utilizzano dire) oppure si può arrivare vestiti normalmente. Per cambiarsi si possono utilizzare i bagni o gli sgabuzzini. In caso si fosse arrivati con i pantaloni del gi e sopra una maglietta si può indossare la casacca, rimanendo sul tatami, facendolo a modo.
Mentre si aspetta l'inizio della lezione è normale scambiare qualche parola con i presenti e spesso capita che qualche praticante di grado avanzato prenda con se le "cinture inferiori" per cercare di correggere degli errori oppure per vedere qualcosa di nuovo. In maniera autonoma si può aspettare l'inizio della pratica facendo esercizi di riscaldamento oppure utilizzare alcuni attrezzi tradizionali o provare tecniche e movimenti. In poche parole non ci sono regole fisse, o schemi dai quali non si può uscire, l'importante è mantenere un atteggiamento marziale ed educato come richiede quel contesto. L'educazione va bene in qualsiasi contesto!
Non sono mancate mai risate e battute scherzose prima e dopo dell'allenamento. Una volta che il Maestro o chi è incaricato a dare il via alla lezione decide di incominciare ci si dispone pronti cercando di occupare bene gli spazi. Solitamente le cinture inferiori con i bambini si posizionano davanti mentre le cinture avanzate restano dietro. Il più delle volte si inizia senza particolari "rituali" di saluto ma può anche capitare che questo venga fatto.
Per quanto riguarda lo stile e la scuola in cui ho avuto modo di cimentarmi l'allenamento parte con gli esercizi propedeutici che si svolgono in coppia. Questi esercizi aiutano a sviluppare e capire i concetti base dello stile e sono indispensabili. Una volta finiti questi esercizi si passa al cuore del karate tradizionale: il kata. Non è raro che durante gli esercizi propedeutici chi ha la competenza necessaria aiuti chi è alle prime armi facendo svolgere degli esercizi specifici che prevedono l'uso di strumenti tradizionali per comprendere meglio concetti e segreti nascosti in quell'esercizio. I kata vengono praticati seguendo i comandi del Maestro in modo da andare tutti allo stesso ritmo e per rispettare i giusti tempi delle tecniche. Si parte con i kihon kata ovvero delle forme in cui si eseguono le tecniche principali e base dello stile ed più in generale del karate. Dopo questi si passa al kata fondamentale dello stile, il Naihanchi (Tekki per chi pratica Shotokan). Dopo aver eseguito la prima volta il kata si studiano singolarmente alcune delle principali tecniche ripetendole a modi kihon. Dopo i tre kata Naihanchi (shodan, nidan e sandan) si studiano i Pinan (Heian per chi pratica Shotokan) per poi passare a kata più avanzati.
Ci sono due aspetti importanti da menzionare che contraddistinguono la pratica dei kata ed in generale del karate ad Okinawa. Tra un kata ed un altro oppure tra una serie di kata ed un'altra vengono autorizzate delle pause. Sono pause mirate a riprendersi rifiatando, asciugandosi dal sudore oppure bevendo dell'acqua che ci si può portare o del tè che viene offerto. Nel nostro caso specifico era sempre presente ad ogni allenamento una caraffa di mugi-cha (tè d'orzo) che ci si poteva servire in dei bicchieri di carta. Ma il secondo e forse più importante scopo di queste pause è quello di consentire ai praticanti di chiedere consiglio ad altri praticanti in caso non si ha capito qualcosa oppure per utilizzare gli strumenti tradizionali come il makiwara oppure la versione okinawense dell'uomo di legno, il kakete-biki o kakiya. Infine in queste pause si viene spesso corretti su alcuni errori o difetti commessi durante i kata che non sfuggono agli occhi dei più esperti, ma si può anche essere semplicemente aiutati a migliorare alcune tecniche, posizioni ecc... .
Ecco quindi che un' apparentemente semplice pausa può diventare molto importante se sfruttata bene. Altro aspetto importante riguarda l'abitudine di studiare alcune applicazioni del kata dopo averlo eseguito. In questo modo il praticante inizia a capire perché nel kata si esegue un certo movimento o si esegue una certa tecnica. Queste applicazioni si studiano in coppia e aiutano davvero molto. Allo scadere del tempo il Maestro invita i praticanti al momento del saluto che però avviene sempre dopo aver praticato qualche minuto di mokuso, una sorta di "meditazione" il cui scopo è quello di staccare la spina dall'attività appena svolta per tornare alla vita al di fuori del dojo. Quindi dopo essersi inginocchiati in seiza ed aver svuotato la mente si esegue il saluto ringraziando per quanto appreso e una volta tornati in piedi ci si ringrazia tra compagni di allenamento. Dopo questo momento ci si va a cambiare oppure se non ci si cambia si procede ad uscire dal dojo salutando e dandosi appuntamento alla prossima sessione. Durante questi allenamenti è stato bella e forte la sensazione costante di appartenere ad una famiglia. Nessuno vuole eccellere, nessuno critica nessuno, ci si aiuta e ci si allena duramente ma sempre con il sorriso (se non sul volto sicuramente nel cuore) in un clima amichevole e semplice. Gli okinawensi sono rilassati e praticare in un dojo di Okinawa mi ha fatto rilassare ed estraniare dal mondo. Non avevo né modo né voglia di pensare ad altro. Ho praticato per la prima volta con mente, corpo e spirito.
Abbiamo scambiato qualche parola con queste persone e ci siamo intrattenuti scrivendo i nostri nomi su alcuni fogli utilizzando pennello ed inchiostro. Durante la serata abbiamo avuto modo di assaggiare il famoso awamori, ovvero la versione okinawense del sake giapponese che però si beve freddo, e abbiamo assaggiato alcune pietanze tipiche come la "pizza di Okinawa" che nonostante abbia poco in comune con la nostra pizza ci è molto piaciuta. Siamo poi stati intrattenuti dalla barista e dal nostro compagno di allenamenti che hanno suonato e cantato per noi, utilizzando lo strumento più usato ad Okinawa ovvero il sanshin, strumento a tre corde accompagnandolo con il tipico modo di cantare dell'isola. La barista che era da quel che ho capito una semi-professionista in quest'arte musicale mi ha emozionato cantando e suonando una tipica canzone usata per accogliere chi veniva e viene sull'isola. Dopo qualche ora uscendo da quel posto ho avvertito qualcosa di forte nel momento del congedarci con il signor Takara, (il praticante di karate) in quanto ho avvertito la sua emozione nel salutarci che però da giapponese ha saputo contenere in maniera educata. Noi occidentali la definiremmo freddezza ma sono sicuro di aver avvertito in lui le stesse sensazioni che provavo io, semplicemente "filtrate" da due culture differenti che manifestano in modo diverso le proprie emozioni.
In alcuni casi ho dovuto percorrere e ripercorrere diverse strade e stradine arrivando alla necessità di chiedere informazioni a qualche passante. Differentemente dal nostro modo di pubblicizzare palestre o scuole di una determinata disciplina o sport, ad Okinawa se non fosse per internet dove si possono trovare alcune indicazioni sulla zona in cui si trova un determinato posto, è difficile per strada trovare della segnaletica che indica la presenza di tali punti di interesse. Salvo alcuni casi, ma molto rari, i dojo che ho trovato son riuscito ad identificarli solo una volta trovatomi di fronte ad essi. Interessante è stato notare che tra le varie persone alle quali ho chiesto aiuto, ed a volte ho dovuto chiedere a diverse persone prima di trovare questi posti, mi hanno saputo aiutare maggiormente le persone avanti con l'età mentre i giovani spesso non sapevano aiutarmi.
Ben due volte sono stato accompagnato a piedi a destinazione. Nel primo caso fu una signora e nel secondo caso un signore proprietario di un negozio uscito apposta dopo essersi tolto il grembiule e lasciando sua moglie sola nella piccola bottega che gestivano. Qui entra in gioco la fiducia di cui vi parlavo poco fa. Io, un giovane straniero occidentale, senza neanche aver avuto modo di spiegare nulla per via della lingua, che non conosco, potevo avere delle cattive intenzioni eppure queste persone mi hanno portato, allontanandosi dal luogo in cui le avevo interrotte dalle loro attività, a destinazione ed anzi con un inglese appena strascicato hanno mostrato interesse nei miei confronti chiedendomi da dove venissi (e quando dicevo che venivo dall'Italia seguivano sempre delle risate, non solo in queste due occasioni...chissà per quale motivo mi son domandato sempre?!). Probabilmente non ero il primo al quale avevano prestato soccorso, durante la loro vita, per la ricerca di questi luoghi anche perché migliaia di persone hanno visitato Okinawa per il loro interesse per le arti marziali lì nate, resta il fatto che ho trovato curiosi ed estremamente cordiali questi gesti. Sarà che dove vivo io in Italia quando tento di salutare una persona anziana molte volte non ricevo neanche un cenno di risposta e sarà che quando mi capita di chiedere un'indicazione la risposta più comune è che quel forestiero non è della zona e se son fortunato ricevo indicazioni talmente confuse da farmi sentire ancora più disorientato di prima.
Qualcuno di gentile che in Italia mi ha aiutato in queste circostanze l'ho trovato per carità, però penso che difficilmente potrò trovare una tale gentilezza dal luogo da dove provengo, e questo non lo dico per disprezzo nei confronti dei luoghi dove sono nato e cresciuto ne per criticare le persone che mi circondano e con le quali condivido l'essere italiano però nelle nostre strade percepisco spesso paura, indifferenza ed un distacco che porta le persone a starsene nel loro senza immischiarsi o farsi immischiare nelle vicende altrui risultando così maleducati e scortesi. Purtroppo da noi probabilmente è più facile finire nelle grinfie di malintenzionati o forse abbiamo sviluppato una paura eccessiva nei confronti dell'estraneo a prescindere dalla sua provenienza. Per me è stato sorprendente essere aiutato in quel modo e sarà una lezione di vita anche questa che porterò con me per sempre.
Ecco le foto di alcuni dei dojo che ho personalmente scovato e fotografato!
Spero che queste mie parole non vi abbiano annoiato e probabilmente se siete arrivati fino a questo punto questo non è accaduto, in ogni caso spero che queste personali riflessioni vi abbiano in qualche modo arricchito.
Visto che il sorriso è stato appunto il protagonista o quasi di questo articolo vi lascio con questo scritto che rispecchia le riflessioni precedenti:
VALORE DI UN SORRISO
Donare un sorriso
rende felice il cuore.
Arricchisce chi lo riceve
senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante
ma il suo ricordo rimane a lungo.
Nessuno è così ricco
da poterne fare a meno
né così povero da non poterlo donare.
Il sorriso crea gioia in famiglia
dà sostegno nel lavoro
ed è segno tangibile di amicizia.
Un sorriso dona sollievo a chi è stanco
rinnova il coraggio nelle prove
e nella tristezza è medicina.
E se poi incontri qualcuno che non te lo offre
sii generoso e porgigli il tuo:
nessuno ha tanto bisogno di un sorriso
come colui che non sa darlo.
Padre Faber
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Buona vita!
P.S.
TUTTE LE FOTOGRAFIE SONO STATE SCATTATE DA ME